Nota di Barbara Campagna, Coordinatrice regionale Ministero Giustizia FP CGIL Lombardia
La sicurezza sociale, la rieducazione ed il reinserimento sul territorio, tutte parole che rischiano di suonare vuote di significato se è vero, come si preannuncia, che i già esangui numeri degli operatori del cosiddetto “trattamento” penitenziario verranno ulteriormente falcidiati del 10 e del 20 per cento.
I numeri sono presto fatti: 6400 circa fra dirigenti e personale tecnico amministrativo con 38000 operatori di polizia penitenziaria e commissari gestiscono quasi 67000 detenuti e 30000 persone in misura alternativa (da statistiche Ministero della Giustizia).
La polizia penitenziaria, col blocco del turn over, si avvierà mestamente a seguire i colleghi delle altre polizie invecchiando i propri ruoli che, salvo quelli apicali, nonostante tre arruolamenti di circa 1000/1500 unità non coprono il turn over delle unità pensionate.
In questo quadro l’accorpamento delle direzioni degli istituti penitenziari di medie dimensioni produrrà l’effetto di carceri materialmente gestite dai soli commissari di polizia penitenziaria, con l’invio in missione, eventualmente, del direttore dell’istituto più grande, con buona pace degli equilibri democratici… perchè affidare gli istituti solo alla polizia, vista la scarsità del personale restante, che contemporaneamente si sta ulteriomente riducendo, grazie alla spending review, significa tornare ad un’idea di carcere che è tutta sicurezza e contenzione con nessuna prospettiva di rieducazione. Questa scelta del Governo è in netta contraddizione con quanto più volte dichiarato dal Presidente della Repubblica Napolitano: “L’abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale sulla funzione rieducatrice della pena e sui diritti e la dignità della persona, è una realtà non giustificabile in nome della sicurezza che ne viene più insidiata che garantita”.
I tagli annunciati dalla spending review sono orientati irrazionalmente a considerare solo le spese del personale, ignorando i risparmi che di potrebbero ricavare evitando le macroscopici incongruenze e sprechi evidenziati dalla Corte dei Conti nel settembre scorso (un esempio per tutti: 10 milioni di euro annui dal 2001 per i cd. braccialetti elettronici, una spesa non economica e inefficace rimessa in bilancio).
Un lavoro silenzioso e discreto, quello degli educatori penitenziari e degli assistenti sociali che però, negli anni di maggior investimento nelle misure alternative, aveva dato i suoi frutti, abbattendo significativamente i tassi di recidiva come si può estrapolare da una ricerca sulla recidiva commissionata dallo stesso Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.
Introdotti nei penitenziari grazie alla riforma del 1975, dopo gli anni delle drammatiche rivolte contro una detenzione inutilmente afflittiva, (vissuti come sostegno del detenuto) i primi, gli educatori, hanno visto delegare alla loro figura professionale sempre più attività utili alla persona ristretta, dalla formazione alla cultura allo sport; hanno assunto un ruolo sempre più attivo di promozione del reinserimento sociale dei condannati cercando sempre più di sottolineare nelrapporto con la magistratura di sorveglianza gli sviluppi comportamentali dei detenuti e spesso hanno stabilito contatti significativi con il territorio d'intesa e con la cooperazione degli assistenti sociali penitenziari che, invece, che da sempre operavano sul territorio per fare da tramite con le diverse realtà in gioco (famiglie, Enti Locali, ASL, cooperative sociali e anche con la collaborazione con altri soggetti del territorio quali: volontari, operatori degli enti locali, agenti di rete ecc.).
Gli assistenti sociali, dal canto loro, nonostante i proclami del Governo di voler incrementare le misure/pene alternative alla detenzione per ridurre il sovrappopolamento carcerario e considerare la pena detentiva solo come extrema ratio, vedono ridurre, grazie alla spending review, sia il numero dei Funzionari di Servizio Sociale sia molte sedi degli Uffici di Esecuzione Penale Esterna (UEPE). Parrebbe che, per le singole regioni tutti gli UEPE verrebbero accorpati alla sede del capoluogo. Ciò non potrà che aggravare una situazione già difficile, con la impossibilità di spostarsi (per assenza di risorse: economiche, di auto o di benzina, se le auto sono “prestate” dagli istituti penitenziari). Con un territorio molto vasto su cui operare, si allungheranno i tempi per la redazione delle relazioni di servizio sociale da trasmettere ai Tribunali di Sorveglianza, ma anche le funzioni di aiuto e controllo dei sottoposti alle misure alternative sul territorio diventeranno impraticabili.
L’Amministrazione penitenziaria, involuta in questi ultimi anni a timido spettatore dello scenario politico e sociale non ha potuto, o non ha voluto, insistere validamente per un incremento di questi operatori ed ha sempre più subordinato la loro opera a logiche di contenimento e controllo più che di valorizzazione ed impulso delle diverse azioni che avrebbero potuto essere messe in rete e potenziate nell’ottica del reinserimento.
In quest’ottica non paiono convincenti nemmeno i due concorsi per “funzionario giuridico pedagogico” che hanno fatto assumere, dopo oltre 8 anni dall’espletamento del concorso circa 500 unità educative, poiché si sono inseriti operatori in un ruolo i cui contenuti venivano e vengono svuotati di sostanza.
Circuiti penitenziari, finanziamenti per la formazione, visibilità esterna, tutto è stato orientato verso l'enfasi del ruolo del personale di polizia e verso l'irrigidimento delle posizioni, la muscolarità di un’amministrazione ormai incapace di aprirsi al dialogo con i lavoratori e con la cittadinanza in modo dinamico e convincente.
Da anni, a parte le citazioni vuotamente retoriche della centralità della missione rieducativa, ovunque negli atti ufficiali e nelle concrete scelte amministrative e organizzative come di quelle programmatiche le figure trattamentali sono ridotte a comparse e confinate sullo sfondo di uno scenario in cui in prima linea vengono sempre più e sempre più spesso collocati i direttori di istituto e il personale di Polizia.
Questo personale di vertice, dunque, è chiamato, nei fatti, a sostituire ruoli e funzioni delle categorie professionali trattamentali, aggravando i propri oneri in un disegno organizzativo che vede sempre più numerosi i posti di vertice e sempre meno gli agenti e contribuendo a generare inopportune commistioni.
Eppure le stesse Regole Penitenziarie Europee, sottolineando che quello penitenziario è un servizio pubblico, precisano che “Gli istituti penitenziari devono essere posti sotto la responsabilità di autorità pubbliche ed essere separati dall’esercito, dalla polizia e dai servizi di indagine penale”.
Domani i tagli che verranno operati partendo dagli operatori più anziani di servizio e più esperti di dinamiche penitenziarie potranno solo subordinare maggiormente questi ruoli all’assetto custodialistico e caritatevole che si sta approntando, ma sicuramente non servirà né alla sicurezza sociale né ai cittadini avere un sistema dell’esecuzione penale sempre più orientato alla privatizzazione.
Vogliamo rappresentare questa realtà senza rabbia o inutili lamentele, perché non si pensi e non si abbia un carcere come luogo di abbandono o beauty farm ma come la Costituzione indica, come luogo in cui detenere e riassociare le persone alla società in dignità e salute quando hanno pagato il loro debito penale.
Milano, 5 novembre 2012