Un Contributo al Dibattito sul DDL Alfano e sul Problema del Sovraffollamento del Carcere
Le riflessioni di alcuni operatori dell’U.E.P.E. di Venezia
Dovendo affrontare il tema in discussione e cioè il sovraffollamento delle carceri italiane, riteniamo necessario fare un passo indietro per rendere l'idea di come gli operatori dell'area del trattamento stanno vivendo l'involuzione del sistema penitenziario.
Si deve tornare al famoso indulto del 2006, criticato a posteriori da molte parti, ma ritenuto allora assolutamente necessario a fronte di condizioni di sovraffollamento inferiori alle attuali.
Noi operatori penitenziari dopo quell'evento, che è stato indicato come ultimo provvedimento clemenziale possibile, ci aspettavamo a breve grandi cambiamenti nel sistema della giustizia.
Consideriamo solo tre fatti :
· Da tempo stava lavorando l'ennesima commissione per la riforma del nostro vecchio Codice Penale, che doveva ridisegnare ed aggiornare il nostro principale sistema sanzionatorio.
· Esisteva un disegno di legge per l'applicazione della messa alla prova, anche agli adulti , purchè condannati a pene inferiori ai due anni.
· Sin dal congresso ONU di Vienna del 2000, l'Italia si era impegnata ad introdurre nel nostro sistema penale strumenti e metodi della giustizia riparativa fra i quali la mediazione penale.
Cosa è successo ?: ….........nulla di tutto questo.
· Il lavoro della commissione per la riforma del codice penale è stato tenuto in un cassetto come ha sottolineato il Procuratore Carlo Nordio, già presidente della precedente commissione
· L'idea di applicare anche ai condannati adulti la messa alla prova è stata ripresa solo a distanza di quattro anni col ddl Alfano
· L'introduzione nel nostro ordinamento di strumenti riconducibili alla giustizia riparativa non può certo essere costituita dall'inserimento obbligatorio del lavoro di pubblica utilità previsto dal ddl Alfano nell'ambito dell'affidamento in prova, della messa alla prova per gli adulti e della libertà controllata.
Che cosa è accaduto invece?
Ø Dopo l'indulto del 2006 abbiamo assistito al tentativo di costituire i nuclei di polizia penitenziaria presso gli uffici di esecuzione penale esterna. Una sperimentazione prevista da bozze di decreti ministeriali ed interministeriali che indicavano la presenza di tali nuclei come condizione indispensabile per rassicurare la magistratura di sorveglianza al fine di rimotivare la stessa magistratura alla concessione di misure alternative.
Dopo l'indulto del 2006 i dati sul rapporto fra persone detenute e persone ammesse alle misure alternative parlano chiaro:
Ø rispetto al 2005, anno in cui in carcere c'erano circa 60 mila persone e in misura alternativa quasi 50 mila;
Ø nel 2007 il rapporto è passato a 44mila detenuti contro quasi 11 mila in esecuzione alternativa al carcere e nel 2008 51mila detenuti contro 9400 misure.
Ø Anche i dati relativi al 2009, sino al mese di settembre, indicano che le misure alternative pur in crescita restano limitate a 10mila unità in rapporto a ben 63 mila detenuti.
Ø Nel mese di luglio 2009, infine, è entrato in vigore il decreto sicurezza che ha introdotto nel nostro ordinamento, tra l'altro, un nuovo reato quello di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato.
Di fronte a questo scenario noi operatori penitenziari siamo rimasti disorientati e siamo diventati spettatori, privi di un reale potere di incisione, che hanno assistito ad un rapido peggioramento delle condizioni di vita dentro il carcere e delle condizioni di lavoro di chi vi opera .
Ciò che sorprende è che dopo un periodo in cui abbiamo registrato un evidente disinteresse per la ricerca di soluzioni che avrebbero potuto impedire il sovraffollamento del carcere e dopo una stagione di sostanziale frenata della magistratura di sorveglianza nella concessione delle misure alternative all'improvviso venga presentato il disegno di legge Alfano che cerca di costruire una via d'uscita preferenziale dal carcere nell'ultimo anno di pena.
Ci sorprende che l'impedimento della recidiva valga per l'accesso alla sospensione dell'esecuzione della pena dalla libertà e rispetto alla concessione di alcune misure alternative e nei casi previsti dal disegno di legge alfano non abbia più peso-
Ci sorprende che il procedimento di sorveglianza attraverso il quale si arriva alla concessione di tale misura sia il più rapido, quello della “camera di consiglio senza presenza delle parti” e che per l'istruttoria di tale procedimento sia sufficiente una semplice relazione sul comportamento del detenuto.
Certo la spiegazione di questa inversione di rotta è con ogni probabilità l'urgenza del ministro di sfollare il carcere, ma il guaio è che abbiamo seri dubbi circa gli effetti di questo “escamotage” perchè un sicuro effetto del provvedimento sarà la congestione degli uffici di sorveglianza e il sovraccarico per gli altri uffici coinvolti nelle pratiche necessarie per consentire l’accesso al benefici (area trattamentale degli istituti/ uffici di esecuzione penale esterna)
Qualora tutti detenuti con residuo pena di un anno richiedano la detenzione domiciliare, tutto il sistema verrà impegnato negli accertamenti necessari:
quelli delle Forze dell'ordine sull'esistenza e controllabilità del domicilio;
quelli sul comportamento tenuto dal ristretto;
quelli che con ogni probabilità richiederà la magistratura di sorveglianza agli uffici dell'esecuzione penale esterna relativamente alla situazione familiare.
Ci si chiede, infatti, come sia possibile che la Magistratura di Sorveglianza, già definita dalla nostra Amministrazione diffidente verso le misure alternative esistenti, che prevedono un lavoro di preparazione del detenuto svolto dal équipe di osservazione e trattamento e del richiedente dalla libertà svolto dagli uffici di esecuzione penale esterna, possa invece concedere sulla base della sola relazione comportamentale una misura che comunque prevede il rientro sul territorio di un condannato nell'ultimo anno di pena.
La probabile congestione degli Uffici di Sorveglianza andrà a scapito dei tempi di concessione delle altre misure alternative.
Ci si chiede, inoltre, come possa essere gestito il controllo di un gran numero di detenuti domiciliari da parte delle forze dell'ordine.
Ci ricordiamo infatti che non molto tempo fa si ventilava la necessità di costituire i nuclei di polizia penitenziaria presso gli Uffici di esecuzione penale esterna muovendo dalla considerazione che le Forze dell'Ordine venivano distolte dal controllo sul territorio a causa degli impegni connessi alle misure alternative.
Il controllo di un detenuto domiciliare è sicuramente più impegnativo per le forze dell'ordine rispetto al controllo di un affidato in prova al servizio sociale, non fosse altro perchè il primo se non trovato al domicilio commette il reato di evasione, mentre il secondo viene proposto per la revoca della misura.
Oltre a ricevere indicazioni così contrastanti, noi operatori penitenziari vediamo ridurre progressivamente le risorse a disposizione dell'area del cosiddetto trattamento:
· il rapporto educatori detenuti la dice lunga sulla reale possibilità di svolgere significative attività di trattamento delle persone ristrette in carcere.
· Gli uffici di esecuzione penale esterna non hanno mai visto completare gli organici del personale, specie nelle sedi del nord Italia e restando collegati alla dislocazione degli Uffici di Sorveglianza, non sono ancora del tutto decentrati su sedi provinciali, con i conseguenti problemi organizzativi e di spostamento sul territorio.
· A seguito della generalizzata contrazione della spesa pubblica anche i nostri Servizi hanno visto tagliare i trasferimenti e di conseguenza venir meno alcune risorse come le auto di servizio per effettuare visite domiciliari e sul lavoro e in alcuni casi non avere la possibilità di effettuare telefonate a causa del mancato pagamento delle bollette.
Il quadro generale è perciò alquanto desolante.
La denuncia delle carenze di personale e delle risorse per far funzionare i nostri Servizi può risultare scontata in tempi come questi, ma ci preme far comprendere che siamo assolutamente motivati a cimentarci nella realizzazione della messa alla prova degli adulti; ciononstante l'esperienza degli U.S.S.M., che da diversi anni si cimentano in questo tipo di intervento, ci insegna che la realizzazione della messa alla prova richiede il coinvolgimento della collettività, intesa come comunità locale dove vive il reo, (famiglia, servizi sociali territoriali, amministrazione locale, associazioni etc.)
Da questa importante caratteristica della misura della messa alla prova discende la necessità che la sua esecuzione sia curata da Servizi ben inseriti nel territorio, in grado di investire anche risorse in gestione diretta nel progetto che viene approvato dalla Magistratura, servizi capaci di promuovere sul territorio l'accettazione del reo in prova.
Se nei confronti di un minorenne è più facile incontrare una buona disposizione verso il “metterlo alla prova” è probabile che altrettanta disponibilità non si troverà per l'adulto, specie in questo momento storico.
Eppure una recente circolare del Capo Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria richiama i dirigenti degli Uffici di Esecuzione Penale Esterna alla necessità di diminuire lo spazio dedicato ai contatti con gli enti locali e ad altri incontri con operatori al fine di garantire una intensificazione delle visite domiciliari effettuate dagli assistenti sociali nei confronti degli affidati.
Tale accorgimento viene direttamente collegato alla necessità di assicurare un maggior controllo ritenuto funzionale alla rassicurazione della magistratura di sorveglianza verso la concessione di quella particolare misura alternativa.
Questa indicazione operativa la dice lunga sulla scarsa conoscenza della situazione in cui versano tali Uffici ed è emblematica di quanto siano contraddittorie le indicazioni sul ruolo di questi Uffici, da un lato invitati a ridurre i contatti col territorio e dall'altro chiamati a progettare e gestire la messa alla prova degli adulti che quegli stessi contatti richiede di intensificare.
Risulta evidente che privi di un'adeguata territorializzazione e delle necessarie risorse gli u.e.p.e. affronteranno questo nuova misura con grandi difficoltà, che andranno a scapito di una efficace gestione della misura stessa.
Nell'ambito della messa alla prova per gli adulti, così come concepita dal disegno di legge Alfano, analogamente a quanto previsto per gli affidati in prova al servizio sociale, si prevede un'' azione di riparazione verso la vittima del reato in questi termini “L'ordinanza che dispone la messa alla prova deve contenere : (..) b) le condotte volte a promuovere, ove possibile, la conciliazione dell'imputato con la persona offesa”.
In altri Paesi Europei, soprattutto a fronte della sospensione del processo, il coinvolgimento della vittima del reato per la definizione dell'attività di riparazione più opportuna è imprescindibile e alla mediazione fra vittima e reo si dedicano apposti servizi specializzati in materia
Evidentemente anche in questo caso l'introduzione di questa nuova misura risponde maggiormente alla necessità di diminuire gli ingressi in carcere per concorrere allo sfollamento che all'individuazione di nuove forme di esecuzione penale che possano ridurre la domanda di carcere della collettività attraverso un adeguato preparazione del confronto fra reo e vittima del reato.
Merita una considerazione a parte l'introduzione del lavoro di pubblica utilità sotto forma di “ingrediente” da aggiungere ovunque:
come obbligo accessorio della messa alla prova
come “conditio sine qua non” per l'accesso all'affidamento in prova al servizio sociale
come strada obbligata per ottenere la conversione in libertà controllata della pena pecuniaria
Anche questa scelta sembra sintomatica del fatto per rendere più “digeribile” l'applicazione delle misure alternative e della messa alla prova è stato necessario aggiungere questo ingrediente in forma obbligatoria.
Non si tiene conto che già nell'ambito dell'esecuzione dell'affidamento in prova al servizio sociale e con limitate risorse a disposizione gli u.e.p.e hanno svolto una difficile attività di promozione sul territorio, presso enti locali e associazioni di volontariato, al fine di rendere possibile lo svolgimento dell'attività di riparazione a favore della collettività dell'affidato.
Non si tiene conto che già nell'ambito della conversione delle pene pecuniarie esiste la possibilità di scegliere il lavoro sostitutivo ma che tale opzione viene raramente applicata in assenza di apposite convenzioni con gli enti locali siglate dai Tribunali di Sorveglianza.
Non si tiene conto che lo svolgimento di un'attività di pubblica utilità dovrebbe configurarsi, più che come un obbligo accessorio della messa alla prova, come il risultato di un processo di presa di coscienza del reo rispetto ai danni procurati con la propria azione, primariamente nei confronti della vittima del reato e poi nei confronti della collettività.
Un'opportuna e necessaria riorganizzazione delle misure alternative alla carcerazione in altre parole richiede un grosso impegno della Pubblica Amministrazione affinchè si promuova presso l'opinione pubblica l'idea che il carcere non è l'unica esperienza penale possibile.
A giudicare dalle modifiche che si stanno apportando al ddl alfano e soprattutto al fatto che avrà scadenza a Dicembre 2013, quando si presume che il Piano Carceri avrà trovato piena realizzazione non sembra che sia questo lo spirito del legislatore.
Non osiamo pensare cosa possano diventare altri istituti di pena, oltre a quelli esistenti, senza la prospettiva di impegnare le persone che vi sono ristrette in un'attività che dia speranza in un futuro e sostentamento per il presente.
Non dimentichiamo, infatti che un detenuto costa alla collettività ma anche alla famiglia da cui proviene; questa condizione è ancora più vera per i detenuti che provengono da altri Paesi, soprattutto quando la migrazione è stata sostenuta dalla famiglia per inviare all'estero un proprio membro alla ricerca di migliori condizioni di vita.
L'accesso ad effettive opportunità di lavoro per il detenuto ed una formazione finalizzata all'occupazione rappresentano una condizioni necessarie perchè le carceri italiane non si trasformino in un'enorme parcheggio per futuri diseredati Ulteriori facilitazioni per l'accesso al lavoro delle persone in esecuzione penale, insieme allo svolgimento di lavoro di pubblica utilità possono costituire , inoltre, un'occasione di rilancio delle misure alternative alla carcerazione.
Ci auguriamo, infatti, che, ampliando le opportunità di accesso al lavoro dei detenuti, la Magistratura di Sorveglianza possa tornare a concedere le misure alternative alla carcerazione nella stessa misura che ha contraddistinto il periodo pre-indulto.
Tali misure sono sicuramente perfezionabili, ma per quanto ci risulta, alla luce di una ricerca sulla recidiva, hanno dato buoni risultati. Le persone che scontano interamente la pena in carcere ricommettono reati più frequentemente che le persone ammesse alle misure alternative.
In questo senso riteniamo che, pur non appartenendo al comparto sicurezza, noi operatori penitenziari abbiamo la convinzione, per alcuni presunzione, che anche il nostro lavoro e l'opportunità di usufruire di una misura alternativa al carcere concorra a produrre sicurezza .
Crediamo in via conclusiva che un metodo efficace per deflazionare il carcere non possa essere congestionare gli uffici di sorveglianza e oberare le forze dell'Ordine che presidiano il territorio, ma scelte più convinte come l'abrogazione degli articoli della Bossi Fini che fanno finire in carcere una quantità di cittadini extracomunitari e l'abrogazione della Legge ex Cirielli che impedisce l'accesso alle misure alternative già esistenti.
Ci auguriamo che questa convinzione possa estendersi nell'opinione pubblica e per questo ringraziamo Antigone e tutte le associazioni che si interessano del carcere, anche attraverso la creazione di occasioni per parlarne pubblicamente.
Assistenti Sociali:
Benazzato Margherita
Bernacchia Ines
Bovo Paola
CarraroChiara
Coniglio Isabella
Falagario Laura
Fratini Federica
Mastrosimone Paola
Menetto Patrizia
Vincenzi Michela