L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

Dal 2007 al 2014 sono stati pubblicati più di 1300 documenti che hanno trattato argomenti riferiti al Servizio Sociale della Giustizia, agli Uffici per l'Esecuzione Penale Esterna, al Sistema dell'Esecuzione Penale Esterna attraverso solidarietaasmilano.blocspot.com

mercoledì 29 ottobre 2008

Giustizia: "populismo penale"... ovvero la strategia della paura

Intervista a Luigi Ferrajoli, a cura di Roberto Ciccarelli

Il Manifesto, 28 ottobre 2008

Il populismo penale che presiede le politiche della tolleranza zero in nome della sicurezza offusca la costruzione in atto di un sistema giuridico che risponde a una visione classista della giustizia. Anche se diminuiscono i crimini commessi, l’ostilità verso i migranti e la piccola criminalità viene alimentata dai media e dai partiti conservatori per costruire il consenso alle norme securitarie.

Un populismo penale che promuove il diritto minimo per i ricchi e i potenti, e un diritto repressivo per i poveri, i marginali e i "devianti", con l’aggravante delle leggi razziste che colpiscono migranti irregolari e rom. È severo e indignato il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli quando commenta le decisioni prese dal governo Berlusconi sulla sicurezza ispirati alla "tolleranza zero". "Per la prima volta nella storia della Repubblica - afferma - la stigmatizzazione penale non colpisce solo singoli individui sulla base dei reati da essi compiuti, ma intere classi di persone sulla base della loro identità etnica".

Un giudizio che non sorprende, quello del massimo teorico del garantismo penale, che ha sempre legato agli studi di diritto, di logica e di metodologia della scienza giuridica, una tensione etica verso l’effettività del diritto sul piano storico e su quello politico. Già magistrato dal 1967 al 1975, anni in cui partecipò alla fondazione di "Magistratura Democratica", Ferrajoli che oggi insegna Filosofia del Diritto alla Terza Università di Roma, ha intrapreso un’opera che ha conosciuto capolavori come Diritto e Ragione del 1989, per giungere al libro della vita, i tre volumi di Principia Iuris, pubblicati quest’anno.

L’omicidio di Giovanna Reggiani avvenuto un anno fa a Roma sembra avere impresso una "svolta punitiva" alla politica italiana. Prima il "pacchetto sicurezza" del Governo Prodi, poi le misure che sanzionano pesantemente la criminalità di strada, l’immigrazione irregolare e i rom del Governo Berlusconi, ricorrendo anche all’esercito. Il tutto in nome dell’insicurezza crescente. Ma quanto è reale questa paura?

Si tratta di una paura in gran parte costruita dal sistema politica e dai media. Secondo le analisi del Centro d’ascolto del Partito Radicale, lo spazio dedicato dai telegiornali alle notizie di cronaca nera è passato dal 10,4% nel 2003 al 23,7% nel 2007, con un incremento del 233,4% nel biennio 2006-2007. Questi dati sono cresciuti in corrispondenza della campagna elettorale. La destra ha cavalcato senza ritegno la politica della paura che ritengo non abbia alcuna giustificazione. Se guardiamo le statistiche storiche, vediamo che in Italia il numero degli omicidi è sceso l’anno scorso a 601, rispetto ai 5 mila nella seconda metà dell’Ottocento. Le lesioni volontarie, le violenze sessuali, sono diminuite di circa due terzi. Lo stesso per i furti e le rapine.

Lei ha definito questo uso demagogico della paura nei termini di "populismo penale". In cosa consiste?

Con questa espressione il giurista francese Denis Salas e quello domenicano Eduardo Jorge Prats definivano una strategia diretta ad ottenere demagogicamente il consenso popolare rispondendo alla paura generata nella popolazione dalla criminalità di strada. Si afferma così un uso congiunturale del diritto penale in senso repressivo ed antigarantista che è totalmente inefficace rispetto alle intenzioni di prevenire i crimini.

Per quale ragione?

Prenda, ad esempio, la proposta di introdurre il reato di immigrazione clandestina. Questo nuovo reato assegnerà a chiunque entra nel territorio nazionale, o vi si intrattiene illegalmente, la condizione di delinquente. Questo significa che in un colpo solo 700 mila immigrati clandestini residenti dovranno essere incarcerati. Senza contare che è impossibile incarcerare centinaia di migliaia di persone. Oppure il reato di prostituzione e adescamento in strada, come proposto dal ministro Mara Carfagna: decine di migliaia di prostitute dovrebbero essere arrestate e processate insieme ai loro clienti. Ovviamente è impensabile che queste norme possano essere seriamente applicate. Ma proprio questo ne conferma il carattere demagogico. Quello che è importante è la valenza simbolica di questi annunci, non la loro applicabilità.

Queste misure sono state giustificate in nome della "tolleranza zero"...

"Tolleranza zero" è un’espressione assurda che esprime un’utopia reazionaria. L’eliminazione dei delitti, cioè la loro riduzione a zero, è impossibile senza un’involuzione totalitaria del sistema politico. La "tolleranza zero" potrebbe essere forse raggiunta solo in una società panottica di tipo poliziesco, che sopprimesse preventivamente le libertà di tutti, mettendo un poliziotto alle spalle di ogni cittadino e i carri armati nelle strade. Il costo sarebbe insomma la trasformazione delle nostre società in regimi disciplinari e illiberali sottoposti alla vigilanza capillare e pervasiva della polizia.

Ma è sulla base di questa parola d’ordine che è avvenuta negli ultimi vent’anni la crescita, non solo in Italia, della carcerazione penale. Se è dunque così inefficace, perché la "tolleranza zero" continua ad essere applicata?

Il fenomeno a cui lei accenna è di dimensioni gigantesche, in tutti i paesi occidentali si è prodotta una vera esplosione delle carceri. In Italia, la popolazione carceraria è raddoppiata, arrivando a 50 mila persone detenute; negli Stati Uniti è addirittura decuplicata, 2 milioni di persone, senza contare i 4 milioni sottoposti alle misure della probation o della parole. Bisogna anche ricordare che in questo paese il numero degli omicidi ha raggiunto quota 30 mila all’anno, dieci volte in più dell’Italia, nonostante le mafie e le camorre. Si tratta di una carcerazione di massa della povertà, generata da una degenerazione classista della giustizia penale, totalmente scollegata dai mutamenti della fenomenologia criminale, alimentata da un’ideologia dell’esclusione che criminalizza i poveri, gli emarginati, i diversi come lo straniero, l’islamico, il clandestino, all’insegna di un’antropologia razzista della disuguaglianza.

Esiste un rapporto tra questo uso della giustizia penale e il cosiddetto Lodo Alfano che tutela le alte cariche dello Stato?

È la duplicazione del diritto penale: un diritto mite per i ricchi e i potenti e un diritto massimo per i poveri e gli emarginati. In questa duplicazione, le misure draconiane contro la delinquenza di strada convivono con l’edificazione di un intero corpus iuris ad personam finalizzato a paralizzare i vari processi contro il presidente del Consiglio, con l’annessa campagna di denigrazione dei giudici accusati di fare politica, anche se interpretano il principio dell’uguaglianza davanti alla legge. È la prova che oggi la giustizia è sostanzialmente impotente nei confronti della delinquenza dei colletti bianchi, mentre è severissima nei confronti della delinquenza di strada. Si pensi agli aumenti massicci di pena per i recidivi previsti dalla legge Cirielli, sull’esempio degli Stati Uniti, simultaneamente alla riduzione dei termini di prescrizione per i delitti societari, destinati così alla prescrizione. E si pensi, invece, alle pene durissime introdotte dal decreto sulla sicurezza: espulsione dello straniero condannato a più di due anni, reclusione da 1 a 5 anni per avere dichiarato false generalità, aumento della pena fino a un terzo nel caso in cui lo straniero sia clandestino.

Sta dicendo che il diritto penale viene ormai usato come strumento di discriminazione?

Tutte queste misure violano una serie di principi di civiltà giuridica, ma soprattutto la sostanza del principio di legalità, cioè il divieto in materia penale di associare una pena ad una condizione, o ad un’identità personale, tanto più se è etnica. È il meccanismo della demagogia populista: si costruisce un potenziale nemico, l’immigrato, e lo si addita come possibile delinquente, o soggetto pericoloso, esponendolo alla violenza omicida come abbiamo visto nelle ultime settimane con l’assassinio di Abdoul Guiebré a Milano, con la strage dei sei lavoratori africani a Castel Volturno, con gli incendi dei campi rom a Napoli e molti altri episodi purtroppo giornalieri. Ma l’aspetto più grave di queste leggi, più ancora della violazione dei principi garantisti, è il veleno razzista che iniettano nel senso comune. Queste leggi non si limitano ad assecondare il razzismo diffuso nella società, ma esse stesse sono leggi razziste, a distanza di settant’anni di quelle di Mussolini, delle quali i nostri governanti dovrebbero vergognarsi.

In che cosa consisterebbe, invece, l’uso garantista del diritto penale?

In una politica razionale, e non demagogica, che abbia a cuore la prevenzione dei delitti, insieme alla garanzia dei diritti fondamentali di tutti, e che consideri la giustizia penale come un’extrema ratio. La vera prevenzione della delinquenza è una prevenzione pre-penale, prima ancora che penale.

Non si può dire che la sinistra non abbia ceduto alle tentazioni dell’ideologia sicuritaria negli ultimi anni, penso alle misure contro i lavavetri e l’accattonaggio adottate da alcuni suoi sindaci. In che modo è possibile impostare una diversa politica della prevenzione?

Con lo sviluppo dell’istruzione di base, con la soddisfazione dei minimi vitali, in altre parole con la costruzione dell’intero sistema di garanzie dal quale dipende l’effettività della democrazia. Ma la prevenzione passa soprattutto dallo sviluppo del senso civico, della solidarietà sociale, della tolleranza per i diversi, insomma dalle virtù civili e politiche che sono esattamente opposte alla paura e al sospetto di tutti verso tutti, alimentati dalla legislazione emergenziale sulla sicurezza.

Sta dicendo che le politiche sociali dovrebbero limitare al massimo il ricorso alle politiche penali?

È proprio sul terreno delle politiche sociali che matura la convergenza tra garantismo liberale e garantismo sociale, tra garanzie penali e processuali e garanzie dei diritti sociali, tra sicurezza penale e sicurezza sociale. È l’assenza di garanzie per l’occupazione e per la sussistenza a creare ciò che chiamo "delinquenza di sussistenza". Queste politiche sociali richiedono lo sviluppo effettivo di garanzie del lavoro, dell’istruzione, della previdenza, in generale politiche che assicurino a ciascuno, come ha detto Marx, lo spazio sociale per l’estrinsecazione della propria vita.


lunedì 20 ottobre 2008

Giustizia: pene alternative; solo quattro su mille sono recidivi

di Andrea Maria Candidi

Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2008

Quattro condannati su mille commettono nuovi reati mentre scontano una pena lontano dal carcere perché sottoposti ad affidamento in prova o in regime di semilibertà, come quello concesso la scorsa settimana - scatenando diverse polemiche - a Pietro Maso, che nel 1991 uccise i genitori e che adesso, dopo 17 anni di carcere, prova a rifarsi una vita.

Un livello di recidiva molto inferiore rispetto a quello che si registra tra chi invece estingue la propria sentenza tra quattro mura. Basta ricordare l’elevatissimo tasso di "rientri" di chi ha beneficiato dell’indulto da detenuto: addirittura 31 su 100 secondo una delle ultime rilevazioni. Un ritmo, questo, che ha contribuito a riportare in fretta le condizioni di affollamento all’interno delle carceri verso il punto di non ritorno. Situazione invece ben diversa se si guarda all’universo penitenziario dietro la lente delle misure alternative, affidamento in prova, detenzione domiciliare o semilibertà.

Secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, se i detenuti hanno ormai superato le 56mila unità, tornando in sostanza al livello d’allarme pre-indulto, il numero dei beneficiari di una misura alternativa ha invece mantenuto il grado - appena sopra quota 9mila al 30 giugno scorso - raggiunto dopo lo sconto di pena varato dal Parlamento nel 2006. In effetti, fino al 2006, l’universo penitenziario era quasi spaccato a metà: con 50-60mila condannati "ospiti" degli istituti penitenziari e 40-50mila a espiare la propria pena "fuori".

Le ragioni della marcata differenza che si registra invece oggi vanno ricondotte, come spiega Carlo Renoldi, magistrato presso il Tribunale di Sorveglianza di Cagliari, "all’ampiezza dell’indulto, che ha cancellato sia le migliaia di misure alternative in corso di esecuzione, sia gli altrettanto numerosi procedimenti relativi alle persone condannate che, libere al momento della sentenza, erano in attesa di essere ammesse alla misura alternativa".

A ciò vanno aggiunti gli effetti della ex Cirielli che, dal 2005, ha introdotto un regime di particolare rigore per i plurirecidivi (anche per reati di minore gravità). Se prima il condannato rimaneva libero fino alla decisione sull’opportunità di concedere una misura alternativa, ora viene arrestato per l’espiazione della pena non appena la sentenza diventa definitiva. "In alcuni casi - sottolinea Renoldi - quando la pena è breve, il Tribunale di Sorveglianza, che ha comunque bisogno di tempo, non riesce a pronunciarsi prima che sia conclusa".

Un altro fattore che giustifica la differente velocità con cui si alimentano le due categorie di condannati è la durata dei processi. Con l’eccezione di quelli per direttissima, che spesso riguardano proprio i plurirecidivi, la lentezza con cui si arriva alla sentenza si ripercuote sulla "riserva" di condannati liberi in attesa di accedere alle misure alternative.

Il basso grado di recidiva, comunque, testimonia la sostanziale efficacia del meccanismo delle pene alternative e l’eccessiva emotività degli allarmi sulla funzionalità del sistema che spesso accompagnano alcuni - seppure drammatici - casi di cronaca. Gli indicatori, peraltro, mostrano un andamento pressoché stabile nel corso degli anni monitorati: dal 2001 a oggi il tasso di revoca delle misure alternative per avere commesso un reato durante la loro concessione oscilla tra il 2 e il 4 per mille.

Va poi sottolineato, conclude Renoldi, "che chi accede al beneficio è in genere una persona che presenta sufficienti indici di integrazione, che rappresentano uno dei criteri positivi per la concessione. Chi non ha un’abitazione, ha situazioni di famiglia conflittuali, non ha un lavoro o è socialmente pericoloso non viene ammesso alla misura alternativa".


Convegno Seac

“I diritti dei detenuti e la Costituzione”

41° Convegno Nazionale SEAC
27/29 novembre 2008
Istituto Suore Maria Bambina
Via Paolo VI, 21 - Roma

programma

scheda iscrizione


Le carceri verso il collasso

Le carceri verso il collasso

www.francocorleone.it/blog/tag/carcere/

‘Tra qualche mese assisteremo allo scoppio delle carceri. E’ una previsione facile, il numero di detenuti e’ ormai superiore a 56 mila unita’, con una media di ingresso di mille ogni mese. A breve saremo quindi oltre il numero presente prima dell’indulto che era 62 mila e al momento in cui si arrivera’ a queste cifre il livello di invivibilita’ sara’ terribile e quindi anche la gestione delle carceri non facile’. Lo ha detto il garante dei detenuti di Firenze Franco Corleone a margine della presentazione di 4 progetti dedicati ai detenuti in Palazzo Vecchio. Secondo Corleone ‘la mancanza di una politica di riforma ha innescato una bomba a orologeria. Quando scoppiera’ non lo so ma e’ una responsabilita’ grande quella di non aver approfittato dell’occasione irripetibile dell’indulto per fare una riforma del codice penale, delle leggi criminogene che riempiono le carceri come quella sulle droghe, sulla recidiva e sull’immigrazione’. Corleone ha poi spiegato che ‘qualcuno ha giocato a criminalizzare l’indulto invece di approfittarne per riammodernare le carceri e per una riforma legislativa perche’ le carceri non si riempissero piu”. Franco Corleone

Bravi Alfano e Maroni: tutto esaurito nelle carceri italiane!


www.giornalettismo.com

I ministri Alfano e Maroni sono davvero grandi. E’ giusto che i sondaggi li premino, i loro successi sono sotto gli occhi di tutti. Le 205 carceri italiane riscuotono un grande successo, e viaggiano verso il tutto esaurito.

Le carceri possono ospitare 43.085 persone, ma secondo i dati del DAP, aggiornati al 13 ottobre, gli istituti penitenziari ospitano attualmente 57.187 detenuti. Sono sovraffollati, ma il successo è incontenibile. Al ritmo di 800-1000 detenuti in più al mese, nel giro di poco tempo arriveranno al limite di tollerabilità, fissato in 63.541 posti. Bisogna stare attenti, Angelino e Robertino: se si supera quel limite, lo Stato diventerebbe fuorilegge!

A dire la verità, lo sapevamo che i due ministri erano due grandi. Anzi, di più: due geni. La loro idea vincente, di fronte a un calo dei reati (scippi, furti, persino omicidi), per riempire quelle povere celle grigie e vuote abbandonate a se stesse, è stata di introdurre nuovi reati e di inasprire le pene: il reato penale per l’immigrazione clandestina, in un paese che secondo la Caritas, su dati del Ministero dell’Interno, cioè dello stesso Maroni, ha circa 100 mila irregolari all’anno, ha ampliato la platea dei potenziali clienti delle patrie galere. Geniale, vero?

Ed ecco le carceri riempirsi come ai bei tempi, quelli dell’indulto votato da quasi tutto il parlamento. Ma ad Alfano e Maroni piace stravincere, e non si accontentano. Così, per rendere le carceri un ambiente più dinamico e frizzante, anche a rischio di farci scappare qualche morto, il bravo Alfano, in collaborazione con un altro bravissimo animatore turistico, Giulio Tremonti, ha anche deciso di non ricoprire i 4000 posti di agente penitenziario che servirebbero per arrivare ad una dotazione organica accettabile. Meglio, molto meglio, spendere quei soldi per i voli aerei di stato a spese del contribuente o per regalare l’Alitalia a un’allegra brigata di amici.

Ci sono oscuri individui che vorrebbero ostacolare i trionfi dei nostri eroi, ma loro vanno avanti senza paura e non stanno con le mani in mano. E hanno pensato che per arrivare all’apoteosi, al trionfo, si sarebbe potuto introdurre un nuovo reato per tutti gli extracomunitari: il reato di respirare. Ma proprio mentre i due si congratulavano tra loro per quest’idea – che Borghezio ha trovato subito geniale – è arrivata la doccia gelata: il personale di Sing Sing e quello di Guantanamo hanno minacciato di citare i due ministri e tutta l’Italia in giudizio alla Corte di giustizia europea e all’ONU, per concorrenza sleale.

Solo il provvidenziale intervento di Berlusconi, che ha coperto di bacini George Bush nel suo viaggio negli USA, organizzato – segretamente - proprio per questo motivo, ha permesso all’Italia di evitare una condanna e la prigione proprio per i due Ministri Angelino e Robertino. Che così potranno inventarsi qualcos’altro. Meno male che Silvio c’è.
Buon tutto!

giovedì 16 ottobre 2008

191° ANNIVERSARIO DELLA FONDAZIONE DEL CORPO DI POLIZIA PENITENZIARIA

martedì 14 ottobre 2008

Alfano; oltre 57.000 detenuti, 150 espulsioni in 6 mesi

Ansa, 14 ottobre 2008

Lo ha sottolineato il Guardasigilli, Angelino Alfano, nel corso di una audizione alla commissione Giustizia della Camera sullo stato delle carceri italiane. Alla data del 13 ottobre scorso i detenuti che hanno passato la notte in cella sono stati 57.187, di questi 21.366, circa il 38%, sono stranieri, provenienti da 150 Paesi, in particolare Marocco, Albania, Tunisia, Romania ed ex Jugoslavia. "Nel 2007 - ha spiegato il ministro - ci sono state solo 282 espulsioni. Al giugno 2008 erano 150". Il Governo, ha spiegato il Guardasigilli, per affrontare il fenomeno del sovraffollamento si sta attrezzando su più fronti "sia sul piano dell’edilizia carceraria che per rafforzare la cooperazione internazionale per l’espulsione degli stranieri, che hanno già fatto pagare allo Stato i costi per la sicurezza, quelli per un giusto processo, il vitto e l’alloggio". E ha ribadito che non é pensabile assicurare "anche vitto e alloggio" a stranieri che abbiano compiuto i reati in Italia. Il ministro ha fatto anche l’esempio degli incontri dei giorni scorsi con le autorità della Romania per dare attuazione all’accordo del 2003 che consente ai romeni detenuti in Italia di scontare la pena nel loro Paese.

Più persone in attesa di giudizio che condannati

Una delle patologie del sistema carcerario italiano è che negli istituti di pena ci sono più persone in attesa di giudizio che condannati con sentenza definitiva. Nelle carceri, ha detto Alfano, ci sono 16.179 detenuti in attesa del primo giudizio, 9.782 appellanti, 3.544 ricorrenti, 1.669 in posizione "mista", mentre i condannati in via definitiva sono 24.285. Alla data del 14 agosto i condannati in via definitiva sono quindi il 39% del totale". Il sovraffollamento delle carceri è poi aggravato da un alto numero di persone che rimangono detenute solo per un brevissimo periodo. Soprattutto uomini dietro le sbarre, visto che solo il 4% della popolazione carceraria è donna, con 2.599 detenute. E si tratta di una percentuale comunque in calo.

Cantieri aperti per 5mila nuovi posti dietro le sbarre

Gli stanziamenti attuati negli anni precedenti al 2008, ha spiegato Alfano, consentiranno in breve tempo di realizzare più di 5mila nuovi posti in carceri nuove o ristrutturate. I primi 2.025 saranno realizzati grazie alla costruzione di nuovi padiglioni in istituti già esistenti, di questi 1.215 potrebbero arrivare già nel 2008. Altri 2.330 saranno costruiti ristrutturando precedenti strutture e in parte realizzando nuove carceri.

Il ministero di via Arenula punta soprattutto su nuovi padiglioni in carceri esistenti, in quanto, spiega Alfano, "sono realizzazioni più celeri e più economiche. Costruire un nuovo padiglione di 200 posti in un carcere esistente costa 10 milioni, realizzare un nuovo istituto ne costa 45".

Provvisori gli effetti dell’indulto

"Gli effetti dell’indulto 2006 sono stati del tutto provvisori", ha detto Alfano parlando dell’intervento che il precedente governo aveva approvato per cercare di ridurre le presenze in carcere. Secondo il ministro dall’agosto 2006 al settembre 2008 le presenze in carcere sono cresciute a ritmo di 800 unità al mese, con un picco, tra novembre 2007 e febbraio 2008, di 1.000 unità mensili.

Il Governo frena sul braccialetto elettronico

Il Governo frena sull’utilizzo del braccialetto elettronico per i detenuti. "Stiamo facendo degli accertamenti tecnici - spiega il ministro Alfano - per vedere se può essere di grande efficienza come in altre zone d’Europa. Ma se le prove non dovessero dare riscontro", addio braccialetto.

venerdì 10 ottobre 2008

Giustizia: con meno misure alternative ci sarà meno sicurezza

di Nicola Boscoletto (Presidente della Cooperativa Sociale "Giotto")

www.ilsussidiario.net, 10 ottobre 2008

Il disegno di legge Berselli-Balboni, sul quale in questi giorni prosegue la discussione alla Commissione Giustizia del Senato, affronta il problema della certezza e dell’effettività della pena proponendo alcune modifiche alla vecchia legge Gozzini che riteniamo rovinose per i percorsi di rieducazione dei condannati, distruttive della persona umana in quanto tale e destinate ad aumentare l’insicurezza sociale anziché diminuirla.

Ribadiamo quanto stiamo sostenendo da anni, non certo per una presunzione di bravura o capacità particolari, ma solo come contributo frutto della nostra esperienza ultradecennale in percorsi di recupero dei carcerati. Non esiste sicurezza senza rieducazione, secondo il principio della "filiera della sicurezza", in base alla quale per chi delinque devono essere garantiti: 1. rapidità e certezza del giudizio; 2. certezza ed effettività della pena; 3. certezza del recupero.

Senza la certezza del recupero le prime due azioni sono vanificate, poiché, come sappiamo, chi esce dal carcere senza prospettive torna a delinquere più e peggio di prima; i dati sulla recidiva sono in questo senso a dir poco allarmanti. Vanno favoriti in tutti i modi i percorsi di recupero e reinserimento sociale dei detenuti, in particolare attraverso l’incentivazione del lavoro che rimane l’unica misura efficace, fondamentale "elemento del trattamento", come previsto dallo stesso Ordinamento Penitenziario (art. 15 legge 354/1975). Il Ddl in questione rende molto più restrittive le possibilità di accesso ai benefici introdotti dalla legge Gozzini, in base alla presunzione che un condannato, tra permessi e sconti di pena, finisca per non scontare la propria colpa.

Invece la legge n. 663 del 1986 ha riformato l’ordinamento penitenziario cercando di renderlo più aderente all’art. 27, terzo comma, della Costituzione, dove si dice che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. L’obiettivo è chiaro: restituire alla società, al termine della pena, uomini migliori di quelli che sono entrati in carcere per aver commesso un crimine.

Per questo deve essere favorito il recupero del condannato e non la sua cancellazione dalla società civile. D’altra parte, come diceva lo stesso Mario Gozzini: "Non ci si può limitare a chiedere che i rei siano posti in condizione di non nuocere più: ci si deve innanzitutto interrogare se del reato commesso non esista una responsabilità collettiva, sia pure indiretta, in quanto non abbiamo saputo intervenire in tempo per risolvere un disagio e prevenirne le conseguenze criminose".

È dimostrato che nella quasi totalità dei casi un condannato recuperato e reinserito pienamente e produttivamente nel tessuto sociale non delinque più e torna a una vita normale, cessando di costituire un pericolo per la sicurezza e un costo da sopportare per la collettività (circa 100.000 euro l’anno, 300 euro al giorno, oltre 1 miliardo di euro l’anno ogni 10.000 detenuti!) Da questo punto di vista il recupero è in funzione, e non in alternativa, alla sicurezza, con cui anzi coincide pienamente.

Perciò le misure alternative e i permessi, se correttamente applicati, costituiscono una possibilità concreta di rieducazione e reinserimento, essendo peraltro in alcuni casi più punitivi della stessa pena detentiva poiché contengono in alcuni casi aspetti anche umilianti (il ritorno in carcere tutti i giorni, le ispezioni notturne delle forze dell’ordine, le firme in questura ecc.). Forte delle crescenti spinte giustizialiste, il Ddl in questione punta invece sulla repressione e sull’inasprimento delle pene, rendendo molto più difficile la possibilità per un detenuto di avvalersi delle misure alternative o dei permessi e addirittura eliminando del tutto alcuni benefici (uno su tutti: la semilibertà per gli ergastolani dopo vent’anni di reclusione), senza alcun interesse ad agevolare i percorsi di rieducazione.

Questa è la strada per togliere ai condannati la speranza di una prospettiva di vita, demotivandoli e azzerandone l’interesse a mantenere una buona condotta, perché se la possibilità di riscatto è molto lontana nel tempo o addirittura inesistente non rimarrà che l’istinto di sopravvivenza. Le carceri torneranno a sovraffollarsi in breve tempo e da luoghi di rieducazione diventeranno luoghi di degrado, dove vincerà la legge della giungla e saranno all’ordine del giorno violenze, soprusi, pestaggi e ritorsioni anche nei confronti degli agenti penitenziari, senza contare i casi già oggi molto frequenti di suicidio e autolesionismo. A proposito del lavoro, i numeri parlano chiaro: se oggi, nell’ambito di una popolazione carceraria di 55.000 detenuti, la possibilità del lavoro remunerato e in regola è offerta solo al 3,5% (727 semiliberi, 307 articoli 21, 700 lavoranti all’interno), per tutti gli altri è automatico che il carcere diventi l’università del crimine, poiché chi entra per un reato esce sapendone commettere molti di più e quindi, in un certo senso, è più "formato". A chi serve tutto questo? Alla società no di sicuro.

È ampiamente dimostrato che nei Paesi in cui è prevalsa l’idea della pena come punizione da espiare fino in fondo senza sconti (Stati Uniti ad esempio) la delinquenza non è affatto diminuita e alla società sono stati restituiti uomini peggiori di prima. Invece, come detto, elemento inscindibile dalla sicurezza rimane il recupero dei condannati, innanzitutto attraverso lo strumento principale di rieducazione costituito dal lavoro.

Ricordiamo che come stabilito dall’art. 20, comma 2, della legge 354/1975 (Ordinamento Penitenziario) il lavoro penitenziario "non ha carattere afflittivo ed è remunerato e l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera, al fine di far acquisire ai detenuti una preparazione professionale adeguata, per agevolarne l’inserimento sociale". Il detenuto deve essere avviato al lavoro non tanto per essere sottratto all’ozio avvilente, quanto perché il lavoro è un dovere sociale, è un diritto costituzionale nonché un essenziale strumento di rieducazione e di reinserimento, con notevoli vantaggi anche di ordine psicologico e sociale, oltre che economico. Per porre rimedio alla carenza di opportunità di lavoro, l’Amministrazione Penitenziaria è chiamata ad agevolare con sempre maggior impegno le iniziative che provengono dalla società libera, nello spirito del principio di sussidiarietà oggi sancito dalla Costituzione, attivando strategie più adeguate e più proficui collegamenti con l’esterno, direttamente con il mondo del lavoro e con le istituzioni.

Diversamente, continuerà a gravare sul carcere e sulla post-detenzione il circolo vizioso che ha posto e pone detenuti ed ex detenuti ai margini dell’attività produttiva e della società, con forte rischio di reiterazione dei reati commessi. Purtroppo da oltre un ventennio poco o niente è stato fatto in questo senso, ma anzi grazie alla disinformazione sistematica oggi è tutto molto più difficile, il sistema è "incancrenito" e non sarà facile trovare una soluzione a breve termine. Risalta su tutto l’immobilismo dell’amministrazione penitenziaria rispetto all’evoluzione dell’economia e del mercato del lavoro.

Innanzitutto va ripensata la funzione del Dap, che oggi si avvale di collaboratori abbandonati a se stessi che frenano lo sviluppo delle attività e non colgono il senso e il valore del loro lavoro; ci riferiamo soprattutto agli oltre 50.000 dipendenti dell’Amm. Penitenziaria, di cui poco meno di 43.000 sono gli agenti di polizia penitenziaria. Molti si pongono l’interrogativo dell’affollamento del personale impiegato al Dap di Roma (poco meno di 2000 persone) come pure della cattiva distribuzione degli educatori (10 per 300 detenuti in alcune realtà, 2 per 700 detenuti in altre!).

Per non parlare della figura del Magistrato di Sorveglianza, ruolo di ardua complessità e di estrema delicatezza (lo consideriamo il Magistrato dei Magistrati), che la legge ha istituito con il compito di recuperare persone che hanno sbagliato e per il quale il cuore di qualsiasi persona che si dica tale desidera che riesca nello scopo nella maniera più efficace.

Riteniamo perciò che per un corretto approccio al problema della sicurezza, che esiste ed è urgente, un moderno Stato di diritto non possa prescindere dall’affrontare in modo sistematico il tema del recupero dei detenuti attraverso lo strumento del lavoro, sia all’interno che all’esterno del carcere. Per far questo è necessario aprire la strada alle iniziative dei cittadini e delle loro formazioni sociali (soprattutto cooperative sociali e loro consorzi), attraverso la progettazione e lo sviluppo di percorsi organici dove le complessità e le problematiche del mondo carcerario, derivate dall’ordinamento penitenziario, sono a carico di un soggetto specifico che possiede il know how professionale e sociale idoneo a operare in maniera efficace.

Concludiamo con alcuni dati. La popolazione carceraria oggi conta 56.000 detenuti ed è di nuovo in una situazione di sovraffollamento: immaginiamoci a fine anno quando sarà di 60.000, o fra due anni (80.000), e così via. Nei cosiddetti lavori domestici alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria sono impegnati poco più di 11.700 detenuti. Se si considera che la maggior parte hanno un contratto part-time o che lavorano ad intermittenza (un mese sì e due no), in termini di posti equivalenti essi sono poco più di 3.000.

Questo tipo di lavoro costituisce una specie di sussidio che tocca a turno un po’ a tutti, con il risultato di essere slegato dal una reale progettazione e quindi diseducativo al massimo. Sono invece solo 700 su 55.000 i detenuti che lavorano con un regolare contratto di assunzione, in prevalenza alle dipendenze di cooperative sociali (278 solo in Lombardia e prevalentemente a cottimo fiduciario, 170 in Veneto, 44 in Piemonte, 28 in Lazio, 38 in Calabria, 35 in Toscana 15 in Emilia Romagna, ecc.). Sono impegnati nel lavoro all’esterno, per lo più con un regolare contratto di lavoro, 651 semiliberi e 311 che beneficiano del lavoro all’esterno in base all’art 21 Ord. Pen.

La recidiva o, diciamo meglio, la percentuale di coloro che - pur dopo aver scontato la pena - danno prova di non essersi redenti e tornano dunque a delinquere, si attesta sul 90%. Un’indagine ufficiale del Ministero della Giustizia, svolta in collaborazione con l’Università, ha rilevato una recidiva del 68% di ex detenuti arrestati nuovamente entro 5 anni, mentre lo stesso studio registra una recidiva del 19% tra chi ha usufruito di misure alternative (articolo 21, semilibertà, ecc.). Noi aggiungiamo, con riferimento ai 700 che lavorano all’interno, che, per chi inizia il percorso lavorativo dall’interno per poi passare alle misure alternative fino ad arrivare al fine pena, la recidiva scende sotto il 5%, con punte dell’1%.

Oggi i consorzi e le cooperative sociali in Italia hanno provato in maniera sussidiaria la strada del recupero e della rieducazione attraverso il lavoro, nel rispetto delle leggi, ottenendo risultati straordinari (1-5% di recidiva contro il 90%).

Non è il momento né il caso di confondere la sicurezza sociale con la certezza della pena e la funzione del carcere. Purtroppo solo perché in questi decenni nessuna istituzione ha saputo affrontare il problema in modo efficace, allora si scarica tutto sul sistema carcerario.

È ovvio per tutti che chi sbaglia deve pagare. Lo diceva tanti anni fa un certo Agostino: "lasciare impunito il colpevole è una crudeltà, perché toglie a chi ha sbagliato la possibilità di correggersi; analogamente favorire un reo perché è povero non è un vero atto di misericordia, in quanto l’impunità lascia il povero prigioniero della sua iniquità".

Ma, proseguiva Sant’Agostino, "la pena non deve avere il carattere di una vendetta, né di un’incontrollata scarica emotiva, ma di un atto di ragione commisurato al duplice fine: della conservazione della società e della correzione del colpevole. Nella proporzionalità sta la giustizia della pena […] si devono perseguire i peccati e non i peccatori, la condanna deve estirpare il peccato e non annientare il peccatore".

Giustizia: 2 ddl Lega; stop alle misure alternative per i recidivi

di Matteo Pandini

Libero, 10 ottobre 2008

Maroni l’aveva detto dopo la strage di Castel Volturno, a Caserta. Era il 18 settembre. Un commando di almeno sette persone spara all’impazzata e uccide sei extracomunitari. Scoppia la rivolta degli africani. Cortei, tensioni, accuse di razzismo. Le forze dell’ordine indagano e beccano i presunti killer. Tra loro c’è un tizio che al momento del massacro doveva essere ai domiciliari. Secondo gli inquirenti avrebbe lasciato l’abitazione per partecipare al raid. Il ministro dell’Interno sbotta: quello era da rinchiudere subito, altro che casa. Bossi annuisce: le norme vanno cambiate. E chiede ai suoi di mettersi al lavoro.

A poche settimane da quell’episodio, la Lega ha messo a punto due proposte di legge sulla custodia cautelare e sulle misure alternative alla detenzione. In sostanza, il Carroccio vuole garantire la certezza della pena e limitare la discrezionalità della magistratura.

I mal di pancia del Pdl

Chissà come la prenderanno gli alleati, che negli ultimi giorni (in Senato) hanno accusato qualche mal di pancia per gli emendamenti padani sulla sicurezza. Il Pdl non si è infastidito solo per il merito delle proposte (tra cui l’introduzione di un sistema a punti - che funziona come quello della patente - per giudicare il comportamento degli immigrati) ma anche per il metodo. Dalle parti di Forza Italia e An non gradiscono quelle che giudicano vere e proprie fughe in avanti degli uomini di Bossi. Ma loro tirano dritti. Ecco l’ultima idea delle camicie verdi. Oggi, se ci sono pesanti indizi a suo carico, un indagato può essere messo in carcere o ai domiciliari. I lumbard propongono una correzione, inserendo un comma all’articolo 275 del codice di procedura penale. Cosa cambierebbe?

La proposta leghista

Mettiamo che Tizio sia stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per reati gravi come l’associazione a delinquere di stampo mafioso, l’omicidio, la riduzione in schiavitù e la tratta delle persone, il sequestro di persona a scopo di estorsione, lo sfruttamento della prostituzione minorile, la pornografia minorile, la violenza sessuale aggravata e la rapina a mano armata. Ecco, se si sospetta che Tizio ci sia ricascato, non può finire ai domiciliari.

Per lui si deve spalancare il cancello del carcere. È ovvio: il giudice deve ritenere sussistano esigenze di custodia cautelare. In altre parole, ci devono essere pesanti indizi a carico dell’indagato. In questo caso, però, secondo gli uomini di Bossi è necessario il massimo rigore.

La seconda proposta targata Lega vuol dare una "sistemata" alla legge Gozzini, quella che prevede un sistema premiale per i detenuti. E che in sintesi permette misure alternative al carcere e sconti di pena. Il Carroccio-pensiero recita così: se Tizio viene condannato due volte per reati gravi (sempre con sentenze passate in giudicato) non può ambire ad alcun beneficio. Cioè a riduzioni del periodo di detenzione o ad altre soluzioni come la libertà vigilata, l’affidamento ai servizi sociali e via elencando.

Questi galeotti resterebbero senza speranze? Non proprio, perché potrebbero confidare in qualche sconticino grazie alla buona condotta. A dire il vero i leghisti avevano pensato di cancellare pure quella, ma poi hanno preferito desistere per non incagliarsi in obiezioni costituzionali.

Il ruolo di Cota

Le proposte della Lega sono state messe a punto dal suo leader a Montecitorio Roberto Cota. Il passo successivo sarà recarsi alla conferenza dei capigruppo e chiedere di discuterle al più presto. Il Carroccio resta vigile: se in Aula approdasse un provvedimento su giustizia o sicurezza, potrebbe cogliere la palla al balzo e inserire subito le sue proposte. Gli uomini di Bossi non vogliono cedere di un millimetro. L’altro giorno, in Transatlantico, Roberto Maroni ha incontrato l’esponente del Pd Livia Turco. Supplica dell’onorevole: "Fai qualcosa per i poveri immigrati...". Risposta del ministro: "Voi vi occupate dei poveri immigrati, noi dei poveri italiani...".

La posizione del Viminale

E ieri il titolare del Viminale è tornato a parlare di immigrazione e sicurezza alla Camera, spiegando che il "rigore" messo in atto dal governo è figlio del "comportamento lassista" del centrosinistra ai tempi dell’esecutivo Prodi. "Attribuire l’insorgere di una presunta deriva razzista alle politiche in materia di sicurezza di questo governo è veramente irresponsabile" ha tuonato Maroni tra i fischi dei parlamentari del Pd.

"Noi - ha giurato - combattiamo e combatteremo la criminalità con ogni mezzo, affermando il rispetto della legge con tutto il rigore necessario e senza mai guardare in faccia a nessuno. Un rigore che è necessario e preteso a gran voce dai cittadini". Poi il ministro degli Interni ha sciorinato le cifre che riguardano l’immigrazione nel nostro Paese. "L’Italia è il paese che accoglie di più e meglio chi viene da scenari di guerra o le cosiddette "persone vulnerabili", donne, anziani e bambini". Maroni ha spiegato poi che "tra i paesi europei la Germania ha una percentuale di accoglimento delle richieste presentate del 36%, l’Inghilterra del 48%, la Francia del 22%, la Spagna dell’8,5%, la Grecia dello 0,8%, l’Italia del 59%: essere accolti è un loro diritto e noi - ha concluso - lo riconosciamo molto più degli altri Paesi europei".

La proposta

La proposta di legge della Lega Nord si articola su due punti. Il primo prevede la modifica dell’articolo 257 del codice di procedura penale. Con questa modifica chi è stato già condannato per i reati gravi non beneficerà più degli arresti domiciliari, ma finirà in carcere. Per restarci. Il secondo punto riguarda un’interpretazione molto più rigida della Legge Gozzini, quella che codifica il sistema premiale per i detenuti. La proposta di legge della Lega mira anche a limitare la discrezionalità dei magistrati, ritenuti troppo "buonisti" con chi delinque.

I reati da punire

Ma quali sono i reati gravi per i quali la Lega vuole il carcere senza se e senza ma? Eccoli: l’associazione a delinquere di stampo mafioso, l’omicidio, la riduzione in schiavitù e la tratta delle persone, il sequestro di persona a scopo di estorsione, lo sfruttamento della prostituzione minorile, la pornografia minorile, la violenza sessuale aggravata e la rapina a mano armata.

Il cammino della legge

La proposta di legge è stata messa a punto dal capogruppo alla Camera, Roberto Cota. Il primo passo ufficiale sarà la presentazione della stessa nella conferenza dei capigruppo, chiedendo di portarla in Aula il prima possibile. Magari approfittando di qualche provvedimento sulla giustizia che approdi in Aula, per infilare anche questa proposta é cominciare l’iter.

L’ideatore

Roberto Cota, insistete ancora con la sicurezza...

"Assolutamente sì. La gente vuole sicurezza e chi ha responsabilità legislative deve garantire questo bene primario. Non dobbiamo perdere di vista la realtà: in questo Paese succede che troppi delinquenti restino fuori dalla galera. Così non va. Chi commette reati gravi deve stare in cella".

Cavalcate la paura dei cittadini?

"Noi non cavalchiamo nulla. Vogliamo dare risposte concrete, e speriamo che le nostre proposte siano condivise. Chi fa della strumentalizzazione non capisce che su certi temi non c’è da scherzare".

Volete limitare la discrezionalità delle toghe?

"Se la discrezionalità ha prodotto risultati come quelli visti ultimamente direi che una riflessione va fatta".

No ai domiciliari, sì alla galera. Così le celle si intaseranno ancora di più...

"Se un soggetto è pericoloso non può restare fuori dal carcere solo perché c’è sovraffollamento. Non possiamo scaricare il problema sui cittadini".

Magari vi accuseranno di fare del giustizialismo come Di Pietro…

"Noi non siamo giustizialisti e abbiamo una linea coerente. Di Pietro dice sempre che i giudici non sono mai responsabili. Però a Castel Volturno uno che doveva essere ai domiciliari è accusato di aver sparato agli extracomunitari. Vedremo se Di Pietro cambierà opinione".

giovedì 9 ottobre 2008

Per la produttività soltanto 7 euro lordi al mese. Forse anche meno

A gennaio il governo vuole mettere già gli aumenti nelle buste paga dei dipendenti pubblici, anche se non ci sarà ancora un contratto firmato. Per farlo utilizzerà i soldi già stanziati dalla Finanziaria, o meglio il 90% delle risorse disponibili.
La notizia è già abbondantemente nota, ma vi siete mai chiesti perché il 90%?
Il motivo è semplice. Questo anticipo di aumento finirà interamente nel salario tabellare, cioè la quota fissa dello stipendio. Se si fosse usato il 100% delle risorse, non ci sarebbe stato più neanche un euro da destinare al salario variabile, cioè alla produttività. (A meno che il governo non decidesse di aggiungere altri soldi al suo stanziamento, cosa che finora Tremonti e Brunetta hanno sempre escluso).

Se così stanno le cose, si può concludere che il governo intende destinare alla produttività il restante 10% di risorse. Cioè circa 7euro lordi a testa.

Di tutto questo parla un articolo del Messaggero pubblicato lunedì scorso. Qui però vorrei aggiungere qualche chiarimento e qualche osservazione supplementare.

1) Qualche lettore ha pensato che i 7 euro di cui sopra fossero al giorno o all'ora. Non è possibile - hanno detto - che si pensi a una cifra così bassa. Ovviamente non è così, si tratta di una somma lorda mensile.

2) Va però precisato che questi soldi non sono l'intero premio di produttività concesso ai dipendenti, bensì sono l'aumento previsto dall'anno prossimo per rivalutare i premi già esistenti. Inoltre si tratta di un aumento medio, e nel caso del salario variabile le medie aritmetiche sono una pura astrazione: trattandosi di soldi che per definizione non vanno distribuiti a tutti nella stessa misura, ci sarà chi prenderà zero e chi invece avrà otto o nove o quattordici euro o anche di più(parliamo sempre di aumenti).

3) Per valutare correttamente quello che succederà l'anno prossimo ai premi di produttività, bisogna ricordare che a fianco di questa rivalutazione di 7 euro, la manovra finanziaria del governo ha previsto una forte decurtazione dei fondi per i contratti integrativi. Il saldo fra le due operazioni sarà decisamente negativo. In altre parole, il salario di produttività l'anno prossimo sarà fortemente ridotto rispetto a quest'anno.

4) E' vero che - come ricorda spesso il ministro Brunetta - la manovra ipotizza una successiva integrazione delle risorse, attingendo in particolare ai risparmi di gestione. Ma sull'entità di questa ipotetica integrazione si possono nutrire molti dubbi: con l'aria che tira, di risparmi sulle spese di funzionamento se ne prevedono ben pochi.

5) Allo stesso tempo, non è affatto scontato che questi famosi 7 euro di aumento vadano tutti sul salario variabile. Bisogna vedere come andrà la trattativa con i sindacati. L'apertura di una trattativa per i nuovi contratti è ancora lontanissima, ma di una cosa si può essere assolutamente certi: i sindacati non vorranno più mettere neanche un centesimo sui premi di produttività. E' la naturale conseguenza della Finanziaria tremontiana. Il taglio ai fondi di amministrazione lascia una cicatrice indelebile. D'ora in poi i lavoratori non avranno alcuna convenienza ad accettare l'uso delle risorse per finanziare la produttività.

www.pubblicoimpiego.it

MOBILITAZONE LAVORATORI GIUSTIZIA

Al Capo di Gabinetto

Del Ministro

Uffici Relazioni Sindacali dei Dipartimenti:

Organizzazione Giudiziaria

Amministrazione Penitenziaria

Giustizia Minorile

Archivi Notarili

e degli Uffici Giudiziari

Oggetto: indizione di assemblea nazionale del personale del Ministero della Giustizia, 10 ottobre 2008 (Organizzazione Giudiziaria, Dap, Giustizia Minorile e Archivi Notarili).

Le scriventi OO.SS. con la presente nota indicono una assemblea nazionale di tutti i lavoratori del Ministero della Giustizia per il giorno 10 Ottobre ’08, dalle ore 10.00 alle ore 14.00, presso la Corte di Cassazione con il seguente ordine del giorno:

Informazione ai lavoratori sui provvedimenti del Governo in materia di pubblico impiego e sullo stato delle trattative per il rinnovo contrattuale

Nel precisare che la presente indizione viene inoltrata ai sensi di quanto previsto dall’art.2 CCNQ 7/8/98 sulle libertà sindacali così come integrato dalla Dichiarazione Congiunta n.1 allegata al Contratto Collettivo Nazionale Integrativo al CCNL 1998/2001, si prega di favorire l’afflusso del personale interessato la cui assenza dal servizio va conteggiata nel monte ore previsto per la partecipazione alle assemblee, nonché di diramare l’indizione di assemblea a tutti gli uffici.

Seguirà nota nella quale si indica l’idoneo locale fornito dalla Corte di Cassazione.

Distinti saluti

FPCGIL CISL FP UILPA-UIDAG

Grieco/La Monica/Macigno Marra Nasone

MOBILITAZONE LAVORATORI GIUSTIZIA


VERTENZA PUBBLICO IMPIEGO

VENERDI’ 10 OTTOBRE 2008

ORE 11.00 – 13.00

PRESSO LA

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

Piazza Cavour (Roma)

ASSEMBLEA NAZIONALE

DEI LAVORATORI

DEL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA

(Organizzazione Giudiziaria – DAP – Giustizia Minorile – Archivi Notarili)

Per informare i lavoratori sui provvedimenti del Governo in materia di pubblico impiego e sulla situazione dei rinnovi contrattuali

PARTECIPIAMO COMPATTI PER DIFENDERE I NOSTRI DIRITTI ED IL SERVIZIO PUBBLICO!

FP CGIL

CISL FP

UIL PA

Sindacato Dirigenti Pemitenziari: FINANCHE MEGLIO IL LANCIO DELLA MONETINA…

-L’assenza di regole condivise nei trasferimenti a domanda rappresenta un’offesa nei riguardi dei dirigenti penitenziari di diritto pubblico- Lanciamo un vibrato appello al Ministro ALFANO, al Capo del DAP, Presidente IONTA, ed al Vice Capo del DAP, dr. DI SOMMA, affinché blocchino ed annullino, con la massima urgenza, le procedure di trasferimento a domanda dei dirigenti penitenziari, decisi sulla scorta di parametri numerici assolutamente non concordati con le OO.SS. degli stessi. Tradendo, infatti lo spirito di un primo accordo siglato con le OO.SS. nell’aprile scorso, attraverso il quale si era giunti ad individuare dei principi condivisi, i quali ovviamente necessitavano di essere declinati in congrui differenti punteggi, la Direzione Generale del Personale, inaudita altera parte, stabiliva
autonomamente dei valori numerici che hanno l’effetto di stravolgere la genuina volontà di trasparenza e di meritevolezza che, con l’accordo precitato, si intendeva perseguire nell’avviare la prima, importante, mobilità del personale dirigente penitenziario, onde favorire la corretta distribuzion delle risorse umane dirigenziali, abbandonando finalmente modalità pregresse delle quali non si erano mai comprese le ragioni di buona amministrazione e di imparzialità.
Convinti che con il nuovo corso l’amministrazione penitenziaria voglia intraprendere, in materia di gestione del personale tutto, ed in primo luogo di quello dirigenziale, strade limpide e trasparenti, confidiamo nell’azione attenta e prudente che i massimi vertici del DAP porranno a questa, onde assicurare e riportare, finalmente, serenità in un contesto dove le regole del sano e leale confronto tra parte pubblica e quelle sindacali sono state, spesso, mortificate dal primato di ideologie solo apparentemente “inclusive”, ma in realtà “esclusive”, e finalizzate a sostenere le ragioni di una parte politica o di gruppi di potere, piuttosto che nell’interesse di tutto il personale dirigente penitenziario.
Si comprenderà, al riguardo, come possa risultare per alcuni strategico e fondamentale distribuire le risorse umane non sulla scorta di regole di merito, di effettiva esperienza professionale, di storie individuali contraddistinte da impegno e dedizione al lavoro, bensì di mera appartenenza e “affinità elettive”, poco importando che così facendo possa alimentarsi la fiamma della demotivazione e della sfiducia verso l’attuale management ed il Governo. Eppure, per escludere un tanto, sarebbe bastato, basterebbe, semplicemente convenire, in modo trasparente, sui criteri e sulle regole d’adottare.
Questa O.S. affiancherà ogni ricorso, ogni legittima protesta, ogni rivalsa che i colleghi dirigenti, i quali si sentano lesi nel proprio legittimo interesse acchè siano adottate procedure di trasferimento corrette, intenderanno avanzare in quanto è inaccettabile che proprio nel ministero della Giustizia, e semmai all’insaputa del Ministro, costituendo anche per quest’ultimo una oggettiva minaccia alla propria credibilità, possa manifestarsi una volontà contraria, incapace di costruire percorsi condivisi e trasparenti, i quali attengano alla buona amministrazione del personale dipendente.
Il Segretario Nazionale
Dr. Enrico SBRIGLIA

Giustizia: quando i Governi alimentano le paure dei cittadini

di Nadia Urbinati

La Repubblica, 8 ottobre 2008

Le società occidentali vivono in una paradossale situazione che ripropone in tutta la sua gravità la lungimiranza del paradigma di Thomas Hobbes secondo il quale, proprio perché difficilmente razionalizzabile, la paura indistinta e generica è la condizione peggiore per l’affermazione della pace sociale. Al tempo di Hobbes erano i profeti religiosi e i fanatici ad alimentare quella paura con l’arma della retorica e del linguaggio apocalittico delle sacre scritture. Oggi è la stessa società liberale che sembra trovare economicamente e politicamente conveniente alimentare una paura indistinta e anonima per nemici che possono essere dovunque e che sono totali. In ogni epoca, la pace civile è stata minacciata da tiranni, dittatori o demagoghi. Si trattava di minacce visibili e identificabili.

Oggi è il sistema sociale stesso che genera panico e minaccia la pace. Scrive Jaume Curbet in un libro sulla insicurezza in uscita presso Donzelli che espressioni generiche come "insicurezza urbana", "criminalità organizzata", "disastro ecologico", infine "terrorismo" creano un tipo di paura che molto più di quella per i tiranni del passato tocca le corde più ancestrali ed è quindi più estrema e meno risolvibile.

Questo rende il bisogno di sicurezza un bisogno mai appagato tanto che neppure lo Stato riesce a trasmettere sicurezza attraverso la paura della legge. L’indistinta paura si traduce in soluzioni che sono altrettanto indistinte - che mirano più a colpire l’immaginazione dei cittadini che a risolvere la loro insicurezza. In effetti, una volta che la paura è associata a un oggetto indistinto, è al contingente che si presta più attenzione.

Questo spiega la richiesta da parte dei cittadini di interventi immediati o del "qui e ora"; richiesta di provvedimenti di emergenza e di decisioni esemplari; soluzioni effimere (e poco in sintonia con le procedure e la deliberazione democratiche) che servono essenzialmente a tenere sotto controllo i sintomi dell’insicurezza. La politica della sicurezza nell’era dell’insicurezza indeterminata e globale, dove tutti subiscono l’influenza di tutti, ha una funzione essenzialmente sedativa.

Chiamiamo sicurezza lo stato psicologico che ci viene dal credere di vivere in un ambiente immutato, uguale a se stesso. Quindi ogni turbamento dell’ordinario status quo è visto come fonte di sicurezza. Questo spiega il paradosso descritto da Zygmunt Bauman: sebbene le nostre siano tra le società più sicure, ciò nonostante, molti di noi si sentono più minacciati, insicuri e spaventati, e sono quindi più propensi a cadere in preda al panico e ad entusiasmarsi di tutto ciò che è relativo alla protezione e alla sicurezza.

In un mondo nel quale il rischio prende i contorni dell’imprevedibile e dell’indefinito, ai cittadini non importa sapere che le cause del pericolo sono complesse e non riducibili a una; desiderano soltanto che i rimedi siano semplici, immediati e soprattutto vicini nel tempo e nello spazio; esperimentabili nella quotidianità.

Per esempio, la globalizzazione dei mercati e delle speranze di benessere porta milioni di immigrati a cercare una vita migliore nel nostro continente e nel nostro Paese. La trasformazione multietnica di molti quartieri delle nostre città basta da sola a mobilitare la paura, una paura senza una causa specifica; la prima condizione per domarla è che gli immigrati siano pochi o che siano e restino invisibili; che infine, o soprattutto, contro di loro si mobiliti lo Stato (e i privati cittadini se necessario) con tutti i mezzi disponibili, anche se arbitrari e anche se incostituzionali. Purché se ne vedano alcuni esiti immediati, anche se minimi.

Ma un aspetto nuovo di questa "ossessione per la sicurezza" consiste nel fatto che essa è anche un business sotto molti punti di vista. Esiste un mercato della insicurezza il quale, come ogni altro mercato, deve per poter prosperare e quindi alimentare il bisogno di sicurezza. Ecco il circolo vizioso del quale sono vittima le società democratiche mature: la paura generica alimenta il bisogno di sicurezza ed è a sua volta alimentata da questo bisogno. In cima a questa catena vi è la sicurezza come affare (politico prima di tutto, ma non solo, perché le "aziende" che offrono sicurezza sono sempre di più).

Alimentare la paura artificialmente, dunque: questa è l’arte delle agenzie che si occupano della sicurezza. Ma come produrre insicurezza artificialmente? Se è vero che la paura anonima e indistinta è all’origine del panico dell’insicurezza, non c’è modo migliore per tenerla viva che creare capri espiatori. La storia è prodiga di esempi: la caccia alle streghe, la caccia agli ebrei, la caccia ai sovversivi. L’odierna insicurezza urbana è alimentata artificialmente dalla retorica dalla paura del diverso: zingaro, nero, extracomunitario, musulmano. È certo che l’origine della nostra criminalità (causa tangibile e documentata di giustificata paura) non sta per nulla qui: l’Italia ha una criminalità organizzata e spietata che strangola metà o forse più del suo territorio nazionale, eppure giornali e televisioni ci parlano quasi soltanto degli episodi di violenza che coinvolgono gli "altri".

La politica dell’insicurezza trova un naturale alimento nelle politiche neoliberali, quelle che oggi godono di maggiore stima presso i nostri governi, politiche orientate principalmente a rispondere alle richieste di sicurezza di una popolazione spaventata più che a risolvere i problemi e i diversi conflitti che stanno all’origine delle varie manifestazioni di delinquenza. Le politiche della sicurezza hanno preso il posto delle politiche sociali.

La filosofia dei governi di destra, come quello italiano, è che se disagio si dà questo non è un segno di ingiustizia sociale, ma invece di cattiva sorte e disgrazia, oppure di incapacità personale o mancanza di merito. In ogni caso, la carità umanitaria e religiosa può meglio dello stato sociale curare queste piaghe. Spetta quindi alle associazioni civili, alla famiglia (alle donne in primo luogo, potente surrogato dello stato sociale in ritirata) e alle parrocchie occuparsi della povertà.

Lo Stato dovrà al massimo dispensare tessera di povertà ai bisognosi e sostegno economico a chi li soccorre. Ma il suo compito è un altro: quello di occuparsi dell’insicurezza generata dalla paura. Il neoliberalismo libera lo Stato dall’impegno di promuovere politiche sociali (questo è il significato della sussidiarietà) per occuparlo intensamente nel compito repressivo. Dissociando il disagio sociale dalla sicurezza viene messa in atto un’interessante divisione del lavoro tra società civile e Stato: la prima si occupa del disagio, il secondo della sicurezza.

Il paradosso è che, vivendo della insicurezza lo Stato sarà naturalmente portato a alimentare la percezione della insicurezza. Esso ha bisogno di cittadini impauriti per essere legittimato nel proprio ruolo. Lo fa moltiplicando esponenzialmente le sue polizie perché, come si è detto, è l’azione esemplare che colpisce l’immaginazione; quindi il territorio più vicino deve essere soprattutto curato e pattugliato - i quartieri, le città (questo spiega il favore che incontra la retorica federalista).

Insieme alle polizie di Stato nascono e si moltiplicano piccole polizie private, in un crescendo di offerte di sicurezza, la quale è, come ha scritto Ulrich Beck, "come l’acqua o l’elettricità, un bene di consumo, amministrato sia pubblicamente che privatamente per ottenere benefici". In ogni caso, le frontiere apparentemente forti tra sicurezza pubblica e sicurezza privata sembrano svanire e quella che è una paura indistinta per il non consueto e il diverso diventa una formidabile merce: venduta dai governi per tenere alta la tensione e quindi incrementare consensi, amplificata dai media che sono comunque un prodotto di mercato, recepita dai cittadini nella solitudine dei loro quartieri che una paura generica alimentata ad arte sta desertificando.