Storia del Tossico Esecrato e del Matto Addomesticato
di Giorgio Bignami
Fuoriluogo, 28 dicembre 2008
La riforma sulla droga del ‘75 e la legge psichiatrica del ‘78, uno sguardo in parallelo trent’anni dopo.
Nella seconda metà degli anni ‘70 del secolo scorso, cioè proprio in uno dei periodi più tormentati della nostra storia recente, vennero approvate le due leggi - la 685/1975 e la 180/1978 - che avrebbero dovuto porre fine al regime barbaro cui erano assoggettati i tossicodipendenti e i malati mentali. Tali leggi erano il risultato di difficili mediazioni tra parti politiche assai diverse, o addirittura in perenne scontro tra di loro; quindi, ovviamente, non potevano essere perfette. Da un lato aprivano spazi, per chi ne avesse la volontà civile e politica, per azioni positive di notevole rilevanza; dall’altro di fatto non impedivano il mantenimento dello status quo a tutti coloro - politici nazionali e locali, amministrativi, tecnici - ai quali per interessi economici, corporativi, clientelari, ideologici e politici conveniva di non applicare le nuove norme, ignorandole o dichiarandole assurde e/o inagibili.
Sugli eventi dei primi anni successivi al varo delle due leggi è oggi possibile un giudizio quasi-storico. Stridente infatti appare il contrasto tra le situazioni nelle quali alcune parti hanno efficacemente utilizzato le nuove norme per cambiare radicalmente il destino di molti soggetti in precedenza bistrattati e puniti, e le molte situazioni in cui invece tutto è rimasto fermo, o i cambiamenti hanno avuto un carattere gattopardesco. In estrema sintesi, per la 685 si possono ricordare alcune delle ricadute positive: il modo intelligente in cui parte dei magistrati hanno applicato il criterio della "modica quantità"; la determinazione con la quale il ministro socialista Aldo Aniasi varò nel 1980 i decreti sui farmaci sostitutivi (metadone), incurante dei furibondi attacchi di varie parti sociali e politiche; la dedizione con cui molti operatori trasformarono le modalità di assistenza e cura, in particolare in quei servizi nei quali i decreti Aniasi non si ridussero alla pura e semplice erogazione di "droga di stato".
In campo psichiatrico, la 180 era stata preceduta da robuste esperienze ampiamente pubblicizzate, come quella di Gorizia, di Trieste e altre; quindi, in teoria, essa consentiva minori alibi per la sua mancata applicazione. Allo stesso tempo, tuttavia, la legge era segnata da alcuni handicap inevitabili, date le acrobatiche mediazioni di cui era il frutto; cioè: 1) trattandosi di una sintetica legge-quadro, una volta cessato il momentaneo accordo tra le parti politiche si apriva un vuoto durato quasi vent’anni nei provvedimenti applicativi (sino al primo Progetto-obiettivo degli anni ‘90); 2) la legge aveva un carattere prevalentemente medico-sanitario, conditio sine qua non per prevenirne la bocciatura: un carattere che spianava la strada alla mistificazione buonista ancora oggi prevalente (il matto, poverello, non è un colpevole da controllare e punire, ma un ammalato da curare, mutatis mutandis, come un qualsiasi altro ammalato, consegnandolo per l’addomesticamento a un potere medico da secoli esperto in materia).
In conseguenza la posizione basagliana, che da un lato pienamente riconosceva la natura di vera e propria malattia di buona parte delle patologie psichiche, ma dall’altro insisteva sul fatto che i danni derivavano in massima parte dal modo in cui i pazienti venivano trattati e spossessati dei loro diritti (per incidens, questa tesi era sostenuta da ripetute indagini multicentriche dell’Oms, le quali dimostravano come la cronicità fosse in larga parte la conseguenza dell’organizzazione socio-economica delle società più sviluppate, oltre che da esperienze come quelle di Mosher negli Stati Uniti e di Ciompi in Svizzera) veniva e tuttora viene strumentalmente interpretata come una posizione estremista "antipsichiatrica".
Tale indirizzo, secondo gli oppositori, danneggerebbe gravemente sia gli utenti che gli operatori, svalutando specifiche professionalità come quella medico-farmacologica e quelle psicoterapiche, promuovendo un assistenzialismo dequalificante. Quindi, per lungo tempo nelle sedi di servizio e di formazione ci si è guardati bene dal promuovere e dall’insegnare la professionalità almeno altrettanto ardua e "nobile" della comunicazione con i soggetti, della comprensione dei loro problemi, dell’assiduo sforzarsi nella ricerca di soluzioni appropriate (per i soldi, la casa, il lavoro, i rapporti sociali, la lotta allo stigma, la riappropriazione dei diritti): una professionalità che ovviamente non è in opposizione al corretto esercizio delle precedenti, in un lavoro di équipe ben integrata. (Chi ha poco tempo o voglia di leggere sull’argomento, vada almeno a vedere lo straordinario film "Si può fare" di Giulio Manfredonia).
Da un certo momento in poi i percorsi abbastanza simili - nel bene e nel male - della droga e della psichiatria cominciano a divergere. Smanioso di mostrarsi servo fedele degli Stati Uniti, forte delle paure stigmatizzanti abilmente alimentate in modo indiscriminato nei riguardi degli assuntori "pesanti" e di quelli innocui, Craxi impone di cancellare le parti più positive della 685 col Testo unico del 1990, firmato dalla teodem Rosa Russo Jervolino e dal socialista Giuliano Vassalli.
Il resto è sin troppo noto, dal varo della Fini-Giovanardi al mancato rispetto, nei due anni del successivo governo di centro-sinistra, degli impegni assunti in campagna elettorale per la abrogazione di detta legge e per la promozione delle strategie di riduzione del danno. Per contro i successivi governi Berlusconi, mentre "fanno la faccia feroce" con i progetti di controriforma della 180, di fatto non riescono a farli avanzare di un millimetro; e forse, furbescamente, non hanno neanche l’intenzione di farli avanzare. Perché una tale differenza?
Forse conta soprattutto il diverso peso degli interessi nei due campi: da un lato i sempre più stretti legami tra politica, economia legale ed economia criminale, concimati dal proibizionismo, dall’altro le scaramucce di rilevanza assai più modesta per l’appropriazione degli spiccioli della spesa sociale e sanitaria destinati alla salute mentale (spiccioli che comunque già ora vanno in buona parte al privato, in particolare alle innumerevoli mini-strutture convenzionate di "riabilitazione" - leggi lungodegenza -, per lo più di basso profilo). O forse pesano le ricadute di storie diverse, cioè i quasi due decenni di robuste esperienze di innovazione in campo psichiatrico, prima del varo della 180, a fronte di azioni meno decise e meno avvertite dall’uomo della strada prima del varo della 685.
O forse dobbiamo considerare soprattutto gli sbalorditivi "progressi" nelle tecniche di comunicazione, che hanno fatto sì che il consumo di droga - sia quello minoritario "pesante" e a rischio, sia quello maggioritario "leggero" e innocuo - e il disturbo mentale siano ormai visti in modo assai diverso da una parte crescente dei cittadini: il primo sempre più demonizzato, anche sfruttando le antiche incrostazioni ideologiche contro la "ricerca del piacere" fuori dalle regole; il secondo, decolpevolizzato e addomesticato soprattutto attraverso la medicalizzazione, ormai relativamente più tollerabile.
In ultima analisi, per costruire un’azione più incisiva, urgono chiare e documentate risposte a questi e altri interrogativi. Ciò richiede un impegnativo lavoro secondo indirizzi assai diversi da quelli oggi prevalenti nella ricerca, un lavoro che mentre la casa brucia non può esser delegato ai proverbiali posteri.