L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

Dal 2007 al 2014 sono stati pubblicati più di 1300 documenti che hanno trattato argomenti riferiti al Servizio Sociale della Giustizia, agli Uffici per l'Esecuzione Penale Esterna, al Sistema dell'Esecuzione Penale Esterna attraverso solidarietaasmilano.blocspot.com

domenica 28 dicembre 2008

Storia del Tossico Esecrato e del Matto Addomesticato

di Giorgio Bignami

Fuoriluogo, 28 dicembre 2008

La riforma sulla droga del ‘75 e la legge psichiatrica del ‘78, uno sguardo in parallelo trent’anni dopo.

Nella seconda metà degli anni ‘70 del secolo scorso, cioè proprio in uno dei periodi più tormentati della nostra storia recente, vennero approvate le due leggi - la 685/1975 e la 180/1978 - che avrebbero dovuto porre fine al regime barbaro cui erano assoggettati i tossicodipendenti e i malati mentali. Tali leggi erano il risultato di difficili mediazioni tra parti politiche assai diverse, o addirittura in perenne scontro tra di loro; quindi, ovviamente, non potevano essere perfette. Da un lato aprivano spazi, per chi ne avesse la volontà civile e politica, per azioni positive di notevole rilevanza; dall’altro di fatto non impedivano il mantenimento dello status quo a tutti coloro - politici nazionali e locali, amministrativi, tecnici - ai quali per interessi economici, corporativi, clientelari, ideologici e politici conveniva di non applicare le nuove norme, ignorandole o dichiarandole assurde e/o inagibili.

Sugli eventi dei primi anni successivi al varo delle due leggi è oggi possibile un giudizio quasi-storico. Stridente infatti appare il contrasto tra le situazioni nelle quali alcune parti hanno efficacemente utilizzato le nuove norme per cambiare radicalmente il destino di molti soggetti in precedenza bistrattati e puniti, e le molte situazioni in cui invece tutto è rimasto fermo, o i cambiamenti hanno avuto un carattere gattopardesco. In estrema sintesi, per la 685 si possono ricordare alcune delle ricadute positive: il modo intelligente in cui parte dei magistrati hanno applicato il criterio della "modica quantità"; la determinazione con la quale il ministro socialista Aldo Aniasi varò nel 1980 i decreti sui farmaci sostitutivi (metadone), incurante dei furibondi attacchi di varie parti sociali e politiche; la dedizione con cui molti operatori trasformarono le modalità di assistenza e cura, in particolare in quei servizi nei quali i decreti Aniasi non si ridussero alla pura e semplice erogazione di "droga di stato".

In campo psichiatrico, la 180 era stata preceduta da robuste esperienze ampiamente pubblicizzate, come quella di Gorizia, di Trieste e altre; quindi, in teoria, essa consentiva minori alibi per la sua mancata applicazione. Allo stesso tempo, tuttavia, la legge era segnata da alcuni handicap inevitabili, date le acrobatiche mediazioni di cui era il frutto; cioè: 1) trattandosi di una sintetica legge-quadro, una volta cessato il momentaneo accordo tra le parti politiche si apriva un vuoto durato quasi vent’anni nei provvedimenti applicativi (sino al primo Progetto-obiettivo degli anni ‘90); 2) la legge aveva un carattere prevalentemente medico-sanitario, conditio sine qua non per prevenirne la bocciatura: un carattere che spianava la strada alla mistificazione buonista ancora oggi prevalente (il matto, poverello, non è un colpevole da controllare e punire, ma un ammalato da curare, mutatis mutandis, come un qualsiasi altro ammalato, consegnandolo per l’addomesticamento a un potere medico da secoli esperto in materia).

In conseguenza la posizione basagliana, che da un lato pienamente riconosceva la natura di vera e propria malattia di buona parte delle patologie psichiche, ma dall’altro insisteva sul fatto che i danni derivavano in massima parte dal modo in cui i pazienti venivano trattati e spossessati dei loro diritti (per incidens, questa tesi era sostenuta da ripetute indagini multicentriche dell’Oms, le quali dimostravano come la cronicità fosse in larga parte la conseguenza dell’organizzazione socio-economica delle società più sviluppate, oltre che da esperienze come quelle di Mosher negli Stati Uniti e di Ciompi in Svizzera) veniva e tuttora viene strumentalmente interpretata come una posizione estremista "antipsichiatrica".

Tale indirizzo, secondo gli oppositori, danneggerebbe gravemente sia gli utenti che gli operatori, svalutando specifiche professionalità come quella medico-farmacologica e quelle psicoterapiche, promuovendo un assistenzialismo dequalificante. Quindi, per lungo tempo nelle sedi di servizio e di formazione ci si è guardati bene dal promuovere e dall’insegnare la professionalità almeno altrettanto ardua e "nobile" della comunicazione con i soggetti, della comprensione dei loro problemi, dell’assiduo sforzarsi nella ricerca di soluzioni appropriate (per i soldi, la casa, il lavoro, i rapporti sociali, la lotta allo stigma, la riappropriazione dei diritti): una professionalità che ovviamente non è in opposizione al corretto esercizio delle precedenti, in un lavoro di équipe ben integrata. (Chi ha poco tempo o voglia di leggere sull’argomento, vada almeno a vedere lo straordinario film "Si può fare" di Giulio Manfredonia).

Da un certo momento in poi i percorsi abbastanza simili - nel bene e nel male - della droga e della psichiatria cominciano a divergere. Smanioso di mostrarsi servo fedele degli Stati Uniti, forte delle paure stigmatizzanti abilmente alimentate in modo indiscriminato nei riguardi degli assuntori "pesanti" e di quelli innocui, Craxi impone di cancellare le parti più positive della 685 col Testo unico del 1990, firmato dalla teodem Rosa Russo Jervolino e dal socialista Giuliano Vassalli.

Il resto è sin troppo noto, dal varo della Fini-Giovanardi al mancato rispetto, nei due anni del successivo governo di centro-sinistra, degli impegni assunti in campagna elettorale per la abrogazione di detta legge e per la promozione delle strategie di riduzione del danno. Per contro i successivi governi Berlusconi, mentre "fanno la faccia feroce" con i progetti di controriforma della 180, di fatto non riescono a farli avanzare di un millimetro; e forse, furbescamente, non hanno neanche l’intenzione di farli avanzare. Perché una tale differenza?

Forse conta soprattutto il diverso peso degli interessi nei due campi: da un lato i sempre più stretti legami tra politica, economia legale ed economia criminale, concimati dal proibizionismo, dall’altro le scaramucce di rilevanza assai più modesta per l’appropriazione degli spiccioli della spesa sociale e sanitaria destinati alla salute mentale (spiccioli che comunque già ora vanno in buona parte al privato, in particolare alle innumerevoli mini-strutture convenzionate di "riabilitazione" - leggi lungodegenza -, per lo più di basso profilo). O forse pesano le ricadute di storie diverse, cioè i quasi due decenni di robuste esperienze di innovazione in campo psichiatrico, prima del varo della 180, a fronte di azioni meno decise e meno avvertite dall’uomo della strada prima del varo della 685.

O forse dobbiamo considerare soprattutto gli sbalorditivi "progressi" nelle tecniche di comunicazione, che hanno fatto sì che il consumo di droga - sia quello minoritario "pesante" e a rischio, sia quello maggioritario "leggero" e innocuo - e il disturbo mentale siano ormai visti in modo assai diverso da una parte crescente dei cittadini: il primo sempre più demonizzato, anche sfruttando le antiche incrostazioni ideologiche contro la "ricerca del piacere" fuori dalle regole; il secondo, decolpevolizzato e addomesticato soprattutto attraverso la medicalizzazione, ormai relativamente più tollerabile.

In ultima analisi, per costruire un’azione più incisiva, urgono chiare e documentate risposte a questi e altri interrogativi. Ciò richiede un impegnativo lavoro secondo indirizzi assai diversi da quelli oggi prevalenti nella ricerca, un lavoro che mentre la casa brucia non può esser delegato ai proverbiali posteri.

Fondi per Carceri tagliati del 30%


di Davide Madeddu

L’Unità, 28 dicembre 2008

Signori si taglia. I detenuti crescono ma i soldi per le carceri si riducono. Cresce la popolazione che vive dietro le sbarre, al ritmo di mille persone, al mese ma il governo taglia le risorse per far funzionare le prigioni. Centotrenta milioni in meno, questo a sentire i parlamentari del Pd e le organizzazioni sindacali, l’importo che l’esecutivo ha deciso di tagliare, rispetto allo scorso anno per il funzionamento delle carceri.

"Siamo al paradosso - esordisce Amalia Schirru, parlamentare Pd - il numero dei detenuti cresce a dismisura e il governo taglia le risorse per il funzionamento". Sforbiciata che riguarda un importo consistente per un sistema che oggi ha raggiunto quasi quota 59mila detenuti."La nuova Finanziaria prevede un taglio del 30 per cento delle risorse destinate al sistema penitenziario rispetto alle somme stanziate l’anno scorso - dice Amalia Schirru, parlamentare del Pd - che tradotto in soldi dovrebbe voler dire quasi 130 milioni di euro in meno rispetto al passato". Un fatto che, a sentire operatori e addetti ai lavori, non potrà che avere conseguenze sull’intero sistema. chi in carcere sconta una pena. Risultato? Meno servizi e detenuti sempre più stretti.

"Il taglio di queste risorse produrrà una serie di disfunzioni alla vita del carcere - denuncia Francesco Quinti, responsabile del settore penitenziario per la funzione pubblica della Cgil nazionale - anche perché diminuiranno i soldi per i costi di formazione, per le attività culturali, la pulizia dei locali negli istituti, la luce, acqua e telefono". E poi le iniziative culturali e le attività di recupero. "Non bisogna dimenticare che, oltre a tagliare i corsi di educazione - prosegue il sindacalista - si vanno a ridurre le spese per il personale, che significa naturalmente salti mortali per garantire il funzionamento di strutture che sono quasi al collasso".

Ricorda la protesta dell’albero di Natale di carta igienica davanti a San Vittore per dire che "verranno a mancare anche i soldi per la carta igienica", Lillo di Mauro, responsabile della Consulta penitenziaria di Roma che non nasconde il suo disappunto e le critiche per un "sistema che si dirige verso il collasso". "Sia chiaro - dice - qui si sta tagliando su una cosa concreta: il reinserimento dei detenuti nella società. Con questo sistema alla pena inflitta dal tribunale se ne aggiunge un’altra, non scritta ma non meno dura".

I tagli, a sentire il rappresentante della Consulta riguardano anche il lavoro all’interno delle carceri. "Ci sarà una riduzione del 22 per cento delle spese per le mercedi - spiega - ossia il pagamento del lavoro ai detenuti, un altro taglio del 28 per cento riguarda l’acquisto di nuovi arredi mentre un altro taglio del 18 per cento riguarda gli investimenti per il funzionamento del lavoro agricolo". Non mancano poi le polemiche e i problemi legati alla sanità dietro le sbarre. Il passaggio di competenze dal ministero della Giustizia a quello della Sanità con conseguente trasferimento alle Regioni e alle Asl non è ancora terminato.

"Il problema vero è che la fase di transizione non è ancora terminata - prosegue Di Mauro - e all’interno delle strutture detentive si vive ancora una situazione di perenne incertezza". Motivo? "Il governo non trasferisce i soldi alle regioni - aggiunge Amalia Schirru - e questo non può che aumentare il livello di incertezza in cui si è costretti a operare".

Fondi per Carceri agliati del 30%


di Davide Madeddu

L’Unità, 28 dicembre 2008

Signori si taglia. I detenuti crescono ma i soldi per le carceri si riducono. Cresce la popolazione che vive dietro le sbarre, al ritmo di mille persone, al mese ma il governo taglia le risorse per far funzionare le prigioni. Centotrenta milioni in meno, questo a sentire i parlamentari del Pd e le organizzazioni sindacali, l’importo che l’esecutivo ha deciso di tagliare, rispetto allo scorso anno per il funzionamento delle carceri.

"Siamo al paradosso - esordisce Amalia Schirru, parlamentare Pd - il numero dei detenuti cresce a dismisura e il governo taglia le risorse per il funzionamento". Sforbiciata che riguarda un importo consistente per un sistema che oggi ha raggiunto quasi quota 59mila detenuti."La nuova Finanziaria prevede un taglio del 30 per cento delle risorse destinate al sistema penitenziario rispetto alle somme stanziate l’anno scorso - dice Amalia Schirru, parlamentare del Pd - che tradotto in soldi dovrebbe voler dire quasi 130 milioni di euro in meno rispetto al passato". Un fatto che, a sentire operatori e addetti ai lavori, non potrà che avere conseguenze sull’intero sistema. chi in carcere sconta una pena. Risultato? Meno servizi e detenuti sempre più stretti.

"Il taglio di queste risorse produrrà una serie di disfunzioni alla vita del carcere - denuncia Francesco Quinti, responsabile del settore penitenziario per la funzione pubblica della Cgil nazionale - anche perché diminuiranno i soldi per i costi di formazione, per le attività culturali, la pulizia dei locali negli istituti, la luce, acqua e telefono". E poi le iniziative culturali e le attività di recupero. "Non bisogna dimenticare che, oltre a tagliare i corsi di educazione - prosegue il sindacalista - si vanno a ridurre le spese per il personale, che significa naturalmente salti mortali per garantire il funzionamento di strutture che sono quasi al collasso".

Ricorda la protesta dell’albero di Natale di carta igienica davanti a San Vittore per dire che "verranno a mancare anche i soldi per la carta igienica", Lillo di Mauro, responsabile della Consulta penitenziaria di Roma che non nasconde il suo disappunto e le critiche per un "sistema che si dirige verso il collasso". "Sia chiaro - dice - qui si sta tagliando su una cosa concreta: il reinserimento dei detenuti nella società. Con questo sistema alla pena inflitta dal tribunale se ne aggiunge un’altra, non scritta ma non meno dura".

I tagli, a sentire il rappresentante della Consulta riguardano anche il lavoro all’interno delle carceri. "Ci sarà una riduzione del 22 per cento delle spese per le mercedi - spiega - ossia il pagamento del lavoro ai detenuti, un altro taglio del 28 per cento riguarda l’acquisto di nuovi arredi mentre un altro taglio del 18 per cento riguarda gli investimenti per il funzionamento del lavoro agricolo". Non mancano poi le polemiche e i problemi legati alla sanità dietro le sbarre. Il passaggio di competenze dal ministero della Giustizia a quello della Sanità con conseguente trasferimento alle Regioni e alle Asl non è ancora terminato.

"Il problema vero è che la fase di transizione non è ancora terminata - prosegue Di Mauro - e all’interno delle strutture detentive si vive ancora una situazione di perenne incertezza". Motivo? "Il governo non trasferisce i soldi alle regioni - aggiunge Amalia Schirru - e questo non può che aumentare il livello di incertezza in cui si è costretti a operare".

mercoledì 24 dicembre 2008

BUONE FESTE A TUTTI

lunedì 22 dicembre 2008

SATIRAINBLOG

SATIRAINBLOG


La corruzione inconsapevole sta affondando il Paese


di Roberto Saviano

La Repubblica, 20 dicembre 2008

La cosa enormemente tragica che emerge in questi giorni è che nessuno dei coinvolti delle inchieste napoletane aveva la percezione dell’errore, tantomeno del crimine. Come dire ognuno degli imputati andava a dormire sereno. Perché, come si vede dalle carte processuali, gli accordi non si reggevano su mazzette, ma sul semplice scambio di favori: far assumere cognati, dare una mano con la carriera, trovare una casa più bella a un costo ragionevole. Gli imprenditori e i politici sanno benissimo che nulla si ottiene in cambio di nulla, che per creare consenso bisogna concedere favori, e questo lo sanno anche gli elettori che votano spesso per averli, quei favori. Il problema è che purtroppo non è più solo la responsabilità del singolo imprenditore o politico quando è un intero sistema a funzionare in questo modo.

Oggi l’imprenditore si chiama Romeo, domani avrà un altro nome, ma il meccanismo non cambierà, e per agire non si farà altro che scambiare, proteggere, promettere di nuovo. Perché cosa potrà mai cambiare in una prassi, quando nessuno ci scorge più nulla di sbagliato o di anomalo. Che un simile do ut des sia di fatto corruzione è un concetto che moltissimi accoglierebbero con autentico stupore e indignazione. Ma come, protesterebbero, noi non abbiamo fatto niente di male!

E che tale corruzione non vada perseguitata soltanto dalla giustizia e condannata dall’etica civile, ma sia fonte di un male oggettivo, del funzionamento bloccato di un paese che dovrebbe essere fondato sui meccanismi di accesso e di concorrenza liberi, questo risulta ancora più difficile da cogliere e capire. La corruzione più grave che questa inchiesta svela sta nel mostrarci che persone di ogni livello, con talento o senza, con molta o scarsa professionalità, dovevano sottostare al gioco della protezione, della segnalazione, della spinta.

Non basta il merito, non basta l’impegno, e neanche la fortuna, per trovare un lavoro. La condizione necessaria è rientrare in uno scambio di favori. In passato l’incapace trovava lavoro se raccomandato. Oggi anche la persona di talento non può farne a meno, della protezione. E ogni appalto comporta automaticamente un’apertura di assunzioni con cui sistemare i raccomandati nuovi.

Non credo sia il tempo di convincere qualcuno a cambiare idea politica, o a pensare di mutare voto. Non credo sia il tempo di cercare affannosamente il nuovo o il meno peggio sino a quando si andrà incontro a una nuova delusione. Ma sono convinto che la cosa peggiore sia attaccarsi al triste cinismo italiano per il quale tutto è comunque marcio e non esistono innocenti perché in un modo o nell’altro tutti sono colpevoli. Bisogna aspettare come andranno i processi, stabilire le responsabilità dei singoli. Però esiste un piano su cui è possibile pronunciarsi subito. Come si legge nei titoli di coda del film di Francesco Rosi Le mani sulla città: "I nomi sono di fantasia ma la realtà che li ha prodotti è fedele".

Indipendentemente dalle future condanne o assoluzioni, queste inchieste della magistratura napoletana, abruzzese e toscana dimostrano una prassi che difficilmente un politico - di qualsiasi colore - oggi potrà eludere. Non importa se un cittadino voti a destra o a sinistra, quel che bisogna chiedergli oggi è esclusivamente di pretendere che non sia più così. Non credo siano soltanto gli elettori di centrosinistra a non poterne più di essere rappresentati da persone disposte sempre e soltanto al compromesso. La percezione che il paese stia affondando la hanno tutti, da destra a sinistra, da nord a sud. E come in ogni momento di crisi, dovrebbero scaturirne delle risorse capaci di risollevarlo. Il tepore del "tutto è perduto" lentamente dovrebbe trasformarsi nella rovente forza reattiva che domanda, esige, cambia le cose. Oggi, fra queste, la questione della legalità viene prima di ogni altra.

L’imprenditoria criminale in questi anni si è alleata con il centrosinistra e con il centrodestra. Le mafie si sono unite nel nome degli affari, mentre tutto il resto è risultato sempre più spaccato. Loro hanno rinnovato i loro vertici, mentre ogni altra sfera di potere è rimasta in mano ai vecchi. Loro sono l’immagine vigorosa, espansiva, dinamica dell’Italia e per non soccombere alla loro proliferazione bisogna essere capaci di mobilitare altrettante energie, ma sane, forti, mirate al bene comune. Idee che uniscano la morale al business, le idee nuove ai talenti.

Ho ricevuto l’invito a parlare con i futuri amministratori del Pd, così come l’invito dell’on del Pdl Granata ad andare a parlare a Palermo con i giovani del suo partito. Credo sia necessario il confronto con tutti e non permettere strumentalizzazioni. Le organizzazioni criminali amano la politica quando questa è tutta identica e pronta a farsi comprare. Quando la politica si accontenta di razzolare nell’esistente e rinuncia a farsi progetto e guida. Vogliono che si consideri l’ambito politico uno spazio vuoto e insignificante, buono solo per ricavarne qualche vantaggio. E a loro come a tutti quelli che usano la politica per fini personali, fa comodo che questa visione venga condivisa dai cittadini, sia pure con tristezza e rassegnazione.

La politica non è il mio mestiere, non mi saprei immaginare come politico, ma è come narratore che osserva le dinamiche della realtà che ho creduto giusto non sottrarmi a una richiesta di dialogo su come affrontare il problema dell’illegalità e della criminalità organizzata. Il centrosinistra si è creduto per troppo tempo immune dalla collusione quando spesso è stato utilizzato e cooptato in modo massiccio dal sistema criminale o di malaffare puro e semplice, specie in Campania e in Calabria. Ma nemmeno gli elettori del centrodestra sono felici di sapere i loro rappresentanti collusi con le imprese criminali o impegnati in altri modi a ricavare vantaggi personali. Non penso nemmeno che la parte maggiore creda davvero che sia in atto un complotto della magistratura. Si può essere elettori di centrodestra e avere lo stesso desiderio di fare piazza pulita delle collusioni, dei compromessi, di un paese che si regge su conoscenze e raccomandazioni.

Credo che sia giunto il tempo di svegliarsi dai sonni di comodo, dalle pie menzogne raccontate per conforto, così come è tempo massimo di non volersela cavare con qualche pezza, quale piccola epurazione e qualche nome nuovo che corrisponda a un rinnovamento di facciata. Non ne rimane molto, se ce n’è ancora. Per nessuno. Chi si crede salvo, perché oggi la sua parte non è stata toccata dalla bufera, non fa che illudersi. Per quel che bisogna fare, forse non bastano nemmeno i politici, neppure (laddove esistessero) i migliori. In una fase di crisi come quella in cui ci troviamo, diviene compito di tutti esigere e promuovere un cambiamento.

Svegliarsi. Assumersi le proprie responsabilità. Fare pressione. È compito dei cittadini, degli elettori. Ognuno secondo la sua idea politica, ma secondo una richiesta sola: che si cominci a fare sul serio, già da domani.

I costi della politica nel 2009 aumentano di 26,5 mln

di Mauro Romano

Italia Oggi, 20 dicembre 2008

E meno male che negli ultimi due anni ha tenuto banco la polemica sui costi della politica. Chissà cosa sarebbe accaduto se libri, inchieste e denunce di ogni tipo non ci fossero state. Fatto sta che dal bilancio dello stato, approvato definitivamente ieri dalla camera, la realtà che emerge è sin troppo chiara: i costi dei palazzi della politica continuano ad aumentare a ogni livello, senza eccezioni.

Partiamo proprio dal ramo del parlamento che ieri ha dato il via libera al provvedimento. Montecitorio, che nel 2008 ha prodotto un costo di 978 milioni e 150 mila euro, l’anno prossimo sfiorerà il miliardo. Per l’esattezza si tratta di 992 milioni e 800 mila euro, con un incremento di 14 milioni e 650 mila.

Se poi si passa al senato la musica non cambia. Nel 2008 palazzo Madama ha pesato sulle casse dello stato per 511 milioni e 500 mila euro. Per il 2009, però, ne sono previsti 519.172.500, per un’impennata di 7.672.500 euro. Tirate le somme, in sostanza, le strutture guidate da Gianfranco Fini e Renato Schifani, costeranno la bellezza di 22,3 milioni in più rispetto all’anno che sta per finire.

E che dire della Corte Costituzionale, di cui è recentemente diventato presidente Giovanni Maria Flick? Nel 2008 ha impegnato per il suo sostentamento 51 milioni e 900 mila euro. Peccato che l’anno prossimo ne serviranno 52 milioni e 700 mila, ovvero 800 mila euro in più. E certo non è da meno, in tutta questa escalation, il Quirinale. Anche in questo caso i numeri parlano piuttosto chiaro.

La presidenza della repubblica, infatti, nel 2008 è stata finanziata con 227 milioni e 800 mila euro. Ma nell’anno che verrà ne serviranno 231 milioni e 217 mila, con un incremento di 3 milioni e 417 mila euro. Manca all’appello, a questo punto, soltanto lo stipendio del capo dello stato, Giorgio Napolitano, che non rimane insensibile al trend. L’assegno del presidente della repubblica, che nel 2008 ha assorbito 226.561 euro, salirà nel 2009 a 235.171,con un ritocco all’insù di 8.610 euro.

Alla fine della fiera, insomma, fra Quirinale, Consulta, Montecitorio e palazzo Madama, lo stato spenderà 26,5 milioni di euro in più rispetto al 2008. Per carità, ci sono ragioni che non potevano impedire questi incrementi, perché tra vitalizi e voci varie un rallentamento dei flussi di spesa sarebbe stato a dir poco utopistico. E nessuno può mettere in dubbio l’importanza delle funzioni connesse a ciascuna di queste istituzioni.

Rimane lo stesso l’impressione che il treno in corsa della spesa pubblica, nonostante mille tentativi e promesse, sia troppo difficile da fermare, soprattutto quando si tratta di incidere le risorse che finiscono dritte dritte nelle tasche della "casta".

lunedì 15 dicembre 2008

Giustizia: assistenti sociali; no alla riorganizzazione del Dgm

Adnkronos, 13 dicembre 2008

Il Consiglio Nazionale Assistenti Sociali, in merito al progetto di riordino dell’apparato amministrativo del ministero della Giustizia, esprime "una forte preoccupazione per la proposta di riorganizzazione del Dipartimento per la Giustizia Minorile, orientata a depotenziarne l’autonomia e la specializzazione".

"Il Consiglio - sostengono gli assistenti sociali - rileva con favore l’atteggiamento al riguardo del Ministro Alfano che ha manifestato in Parlamento la necessità di riflettere su tale progetto di riorganizzazione". "La delegazione Onu - proseguono - di recente in Italia per accertare lo stato dei diritti umani delle persone private della libertà, ha mostrato apprezzamento per il funzionamento della giustizia minorile in Italia, indicandola quale buon esempio per le altre nazioni ed evidenziando anche l’importanza della sua autonomia in linea con le Raccomandazioni delle Nazioni Unite sulla giustizia minorile".

"Auspichiamo - concludono gli assistenti sociali - che non venga dato corso a progetti di riordino degli apparati amministrativi e del Ministero, semplicemente finalizzati a una apparente contrazione delle spese, che possano in alcun modo ledere l’autonomia dell’amministrazione della giustizia minorile e la qualità della sua attività, per come si è progressivamente realizzata nel corso degli ultimi 60 anni"Giustifica

FP CGIL: Lettera aperta ai lavoratori penitenziari comparto Ministeri

L'obiettivo di questo intervento è quello di avviare un confronto e aprire un dibattito su una tematica che in questi ultimi mesi ha praticamente "investito" il personale del comparto Ministeri.


Si tratta come voi ben sapete di iniziative avanzate da alcune OO.SS. che, in maniera semplicistica, pretestuosa e provocatoria, intendono risolvere le annose ed endemiche problematiche del personale penitenziario afferente al comparto Ministeri, proponendo a questi ultimi il passaggio tout- court al Comparto sicurezza oppure l'istituzione ed il successivo passaggio ai "ruoli tecnici " della polizia penitenziaria, riferendosi alla polizia di stato piuttosto che al corpo forestale o, perché no, ai vigili del fuoco.

Insomma proposte che hanno finito per proiettare i lavoratori penitenziari in una dialettica astrusa, ingannevole e a tratti demenziale che ha indotto la FpCgil ad avviare una prima riflessione sulla questione con i componenti la delegazione trattante.
Alcuni contributi sono già stati prodotti da Anna Greco coordinatrice del Piemonte e da Barbara Campagna coordinatrice della Lombardia e che abbiamo inoltrato alla nostra mail-list per avviare il necessario dibattito ma crediamo opportuno, considerate le notevoli sollecitazioni, proporvi alcune considerazioni.
E' a tutti evidente che il periodo storico che stiamo vivendo e che ci si prospetta è particolarmente difficile dal punto di vista politico, sociale ed economico.
Le scelte neo liberiste del governo sono tra l'altro, tutte orientate al bisogno di "fare cassa" e, quindi, mirate prevalentemente ai tagli delle risorse in particolare quelle da destinare al settore pubblico con una ricaduta devastante sui servizi per i cittadini garantiti dalla costituzione - sanità, istruzione, giustizia -.
E' un momento in cui il lavoratore pubblico è oggetto di una pesante aggressione politica e mediatica mirata a svalutare con disprezzo e acredine sia l'aspetto della sua professionalità sia quello più intimo e specificamente personale, mirata a cancellare i diritti di cittadinanza e, ancor più, la storia sindacale e del mondo del lavoro caratterizzata dalle lotte dei lavoratori nella conquista e tutela della loro dignità.
L'obiettivo lucidamente perverso messo in atto è quello di incidere solchi sociali, di favorire una conflittualità tra la classe lavoratrice e la cittadinanza senza precedenti per ridurre e privatizzare il servizio pubblico .
Ebbene, non è casuale, a nostro parere, che tale contesto sia divenuto terreno fertile per progetti e/o iniziative bizzarre e corporative che trovano più o meno razionalmente consensi tra i lavoratori.


Quanto si sta verificando nel penitenziario ne è la prova, ed è evidente che si colloca in un momento di forte disagio (che è inutile negarlo esiste da troppo tempo!), di costante mortificazione professionale e operativa, oggi ancor più consolidata attraverso la riduzione delle risorse economiche, materiali ed umane. E il malessere è ancora più evidente quando nell'ambito della stessa amministrazione, dello stesso posto di lavoro, le ricadute degli interventi politici e amministrativi si diversificano favorendo, purtroppo, conflittualità tra le diverse professionalità, tra i lavoratori.

Siamo consapevoli della forte contraddizione che viviamo quotidianamente, ma crediamo sia necessario non subire apaticamente i richiami, se pur allettanti, di benefici economici e non solo che, oltre a risultare irrealizzabili, vista l'attuale difficile situazione economica, possono intraprendere una china involutiva dal punto di vista culturale, pericolosa e senza ritorno.
Se è indubbio che la veloce ascesa professionale della polizia penitenziaria da una parte e l'istituzione della dirigenza penitenziaria dall'altra hanno finito per soffocare tutte le altre professionalità per le quali non vi è stata alcuna attenzione istituzionale, nessun investimento da parte dell'amministrazione finalizzato alla loro valorizzazione professionale e al riconoscimento della loro operatività complessa e peculiare, per le quali è assente un deciso intervento in ambito politico nel rivendicare equità della distribuzione delle risorse economiche e dare ai due comparti pari dignità, è oltre modo certo che il passaggio al comparto sicurezza non risolverebbe assolutamente le cose, anzi potrebbe aggravarle ulteriormente in termini organizzativi, funzionali e culturali.

Crediamo, infatti, che un eventuale passaggio al comparto "sicurezza" snaturi fortemente il mandato costituzionale di tutto il sistema dell'esecuzione penale, e questo non possiamo permetterlo, non ci appartiene culturalmente. E inoltre, quali sarebbero le implicazioni organizzative e funzionali nello svolgimento del compito istituzionale? Potrà essere rivendicata l'autonomia professionale e dell'area di riferimento? Sono interrogativi che con onestà intellettuale occorre porsi .

La Fp Cgil non intende assolutamente esimersi dall'entrare nella questione, che sembra avere provocato tra i lavoratori forti aspettative, anzi ritiene che debba essere affrontata con la dovuta serietà, esaminando con attenzione il problema e utilizzando con determinazione tutti gli strumenti disponibili a garantire la tutela dello "status" dei lavoratori del comparto ministeri e favorire condizioni ottimali per poter ridare dignità a tutti i ruoli professionali che lo compongono.

Fondamentale, al momento, è lo strumento contrattuale di comparto, il contratto integrativo, che potrebbe risultare una valida occasione per valorizzare le professionalità penitenziarie e la loro peculiarità in quanto specialisti del sistema dell'esecuzione penale, per ribadire che gli operatori penitenziari sono lavoratori pubblici che forniscono un servizio alla cittadinanza .
Occorre poter discutere di qualità del servizio erogato, di verifica e valutazione dei risultati raggiunti anche se il contesto, storicamente auto-referenziale e da tempo ingessato da vetusti archetipi di "non valutazione", esprime evidenti resistenze.
Per questo crediamo possa essere necessario progettare e proporre un nuovo modello organizzativo più agile e funzionale al raggiungimento degli obiettivi, che coinvolga i suoi lavoratori in un progetto condiviso e partecipato, che rappresenti effettivamente la propria specificità valorizzando e potenziando le aree pedagogiche, di esecuzione penale esterna, contabile, nonché le professionalità ad esse afferenti facendo ricorso, se fosse necessario, anche ad intervento normativo che affermi e confermi l'agito e la peculiarità professionale dei lavoratori penitenziari.

A questo aggiungiamo la necessità di rivendicare pari dignità economica tra le componenti professionali penitenziarie ritenendo che la peculiarità del contesto lavorativo e la specificità degli interventi operativi che meglio caratterizzano alcune professionalità vadano estese a tutti i ruoli che in quel contesto intervengono senza per questo, crediamo, modificare lo status dei lavoratori.
Se alcuni degli aspetti evidenziati potranno essere prossimamente proposti e discussi nel corso degli incontri con l'amministrazione per la predisposizione e definizione del contratto integrativo, altri sono ancora in fase interlocutoria e per questo è necessario il contributo di tutti voi che attendiamo e che porteremo al prossimo incontro di coordinamento nazionale da tenersi entro gennaio o inizio febbraio prossimi.
Roma, 10 dicembre 2008

La coordinatrice nazionale
Penitenziari - Ministeri
Lina Lamonica

giovedì 4 dicembre 2008

FP CGIL PIEMONTE

ADESSO BASTA!


Nella giornata di ieri l’ultima scomposta farneticazione del ministro Brunetta indicava il fenomeno del “fannullonismo” come maggior frequente nei lavoratori di sinistra.

Ad integrazione di quanto sopra, in una successiva dichiarazione, si precisava che i cosiddetti fannulloni sono difesi soprattutto dai sindacati di “estrema sinistra”

Non ci appassiona andare ad approfondire se il ministro vi includeva la CGIL. Preme invece sottolineare come viene confermato quanto questa Organizzazione va dicendo da tempo: non c’è nessuna reale volontà da parte del Governo di una riforma e di un miglioramento dell’efficienza della Pubblica Amministrazione. Se ci fosse, lavorerebbe sui punti del memorandum sottoscritto da CGIL, CISL e UIL con il precedente Presidente del Consiglio. C’è solo un attacco strumentale, mirato contro il lavoro pubblico, per renderlo sempre meno credibile e competitivo ed aprire la strada alla privatizzazione dei servizi. Per questo si è aperta una campagna di diffamazione presso l’opinione pubblica, costruendo ad arte il consenso per una battaglia contro presunti fannullonismi e privilegi, e adesso si procede ad alimentare la divisioni all’interno del sindacato e dei lavoratori.

Dividi et impera rimane sempre una buona indicazione strategica. Invece è il momento di ritrovare forza e compattezza per respingere in maniera decisa un attacco che sempre più ci renderà poveri di potere d’acquisto e di dignità.

Siamo i lavoratori che garantiscono l’esercizio dei più importanti diritti collettivi (Giustizia, sanità, Scuola, ecc.) paghiamo le tasse, lavoriamo nella maggior parte dei casi in condizioni drammatiche dal punto di vista delle risorse organiche e strumentali.

Da questa consapevolezza dobbiamo trarre l’orgoglio per reagire a chi, oltre che destinarci parti sempre più residuali di finanziamenti e misure mortificanti e punitive, non ci risparmia nemmeno insulti gratuiti.

Ritrovare l’orgoglio ed esigere rispetto: esigerlo anche nei confronti di quelle rappresentanze sindacali che utilizzano il disagio e i problemi dei lavoratori non per delineare strategie costruttive e propositive, ma per soffiare ulteriormente sulle divisioni, acquistare effimere visibilità, attaccare gli altri sindacati.

Se si pensa che un cattivo utilizzo di alcune delle tutele riguardanti la malattia non può giustificare una scriteriata restrizione dei diritti, questo deve valere anche per il tema dei permessi e dei distacchi sindacali, che sono gli strumenti indispensabili per esercitare una reale rappresentanza. Invece da parte di qualche sindacato, da un lato si promuovo ricorsi contro le disposizioni della legge 133 in materia di malattia, dall’altro si plaude alle misure restrittive non a torto interpretate come veri e propri attacchi alle altre OO.SS. .

Si insinua che gli scioperi della CGIL siano solo di natura “politica”, di opposizione ad un governo ritenuto “non amico”, anziché essere dettati dall’interesse di tutelare i lavoratori.

Abbiamo tante volte ribadito che per noi esistono solo governi con cui confrontarsi nel merito delle questioni, e certo il confronto appare più difficile con l’attuale esecutivo, che smantella a colpo di decreti anni di conquiste in tema di diritti, scegliendo tra gli interlocutori soltanto chi è disposto ad accettare le sue condizioni.

Abbiamo tanto a cuore gli interessi dei lavoratori che ci siamo rifiutati di firmare un accordo che prevede un aumento di 60 euro lordi (a fronte di aumenti negli anni precedenti di 103 e 101 euro, e con un’inflazione raddoppiata), che non dà garanzie riguardo alla restituzione di quanto prelevato dalla busta paga di gennaio, che tace riguardo al taglio strutturale del 20% previsto dal 1 gennaio 2010, che nessuna tutela offre ai 57000 precari che saranno licenziati nel luglio prossimo.

Rifiutarsi di firmare un accordo che accetta le norme della legge 133/08 non significa fare “politica” nel senso deteriore che si vuole dare al termine, significa entrare nello specifico dei lavoratori della Giustizia, che vedranno il taglio del 10% delle dotazioni organiche, il taglio del 20, 30 e 40% delle risorse, la paralisi effettiva di servizi già faticosi da sostenere.

Significa rifiutarsi di sigillare la restrizione dei diritti dei lavoratori pubblici previsti dalla legge 103, e legittimare un modello contrattuale che di fatto rafforza unilateralmente il potere della parte pubblica.

È grave che questo non sia stato compreso, è grave che invece di rafforzare in questa situazione emergenziale un’indispensabile unità sindacale, qualche O.S. abbia cominciato a contestare le alte percentuali di adesioni agli scioperi del pubblico impiego organizzati dalla CGIL su base regionale, e la partecipazione alle grandi manifestazioni svoltesi nelle principali città italiane.

Molti hanno infatti capito, così come i lavoratori del Comparto Ministeri non hanno dimenticato che questa O.S. non ha mai sottovalutato la specificità dei loro problemi. Sanno che tale specificità non può essere difesa se viene a cadere un complessivo sistema di tutele, se ci si benda gli occhi di fronte al fatto che il decreto Tremonti prevede solo per il DAP un taglio netto di 133 milioni di euro per il 2009, penalizzandolo nella manovra finanziaria in maniera molto più invasiva rispetto all’intera amministrazione della Giustizia.

A chi si improvvisa difensore dell’ultima ora di questi lavoratori chiediamo: dov’erano quando abbiamo denunciato il ridimensionamento degli spazi delle aree trattamentali, quando abbiamo difeso la peculiarità della funzione di controllo degli assistenti sociali che si voleva snaturare con l’assegnazione del personale di Polizia Penitenziaria negli UEPE, quando abbiamo difeso la legge Gozzini e quindi quella valenza rieducativa che è alla base dell’identità delle aree diverse da quelle della sicurezza?

Dov’erano quando abbiamo combattuto la battaglia per la stabilizzazione del precariato che ha cominciato a riguardare anche il comparto Ministeri della nostra amministrazione; dov’erano quando abbiamo combattuto la battaglia della riforma della Sanità Penitenziaria per ridare diritti di cittadinanza ai detenuti e maggiori prospettive professionali agli operatori sanitari degli istituti?

Da anni denunciamo la carenza di un organico che adesso arriva a quantificarsi in un difetto di circa 2000 unità, tra educatori, contabili, assistenti sociali e collaboratori amministrativi.

Così come conosciamo bene le peculiarità e le problematiche delle diverse figure professionali: sono quelle che difendiamo quotidianamente nei luoghi di lavoro, spesso compresse da una dirigenza che ancora continua a rapportarsi con l’area della sicurezza in maniera privilegiata.

E non accettiamo lezioni da chi solo ora ha scoperto le disparità tra i diversi comparti: le elenchiamo tutte, da anni, dalle rette degli asili al calcolo delle pensioni, al diverso trattamento economico e giuridico.

Sono state analizzate anche nella nostra regione, nei momenti di pubblico confronto che questo sindacato ha promosso negli anni e anche nell’ultimo, partecipatissimo attivo regionale svoltosi il 26 settembre scorso con la presenza della coordinatrice nazionale Lina Lamonica.

Sono state analizzate le singole soluzioni, dal passaggio agli enti locali (che appare molto improbabile in questo contesto economico e politico) a quello nel Comparto Sicurezza, dove si prospettano grandi resistenze, e dove l’appiattimento identitario delle figure non appartenenti al Corpo di Polizia, numericamente inferiori, sarebbe inevitabile.

Bisogna puntare a un progetto serio, che non faccia i conti su disponibilità che non ci si prende nemmeno la briga di verificare, e che rilanci il mandato istituzionale precipuo dell’attuale Comparto Ministeri, dandogli diversa dignità economica e giuridica.

La delegazione trattante nazionale, di cui la scrivente fa parte, sta lavorando in tal senso. Non si può più rimandare. Occorre ridisegnare il rapporto tra le diverse aree dando loro pari dignità.

Bisogna pensare a un nuovo progetto di esecuzione penale, definirlo, reperire le risorse e il necessario sostegno politico per realizzarlo.

È inutile che si continui ad usare gli specchi per le allodole. Ognuno di noi affronta ogni giorno un duro lavoro, lo facciamo con dedizione e competenza da professionisti, esigiamo di essere considerati come tali.

Torino, 17 novembre 2008

La Coordinatrice Regionale

CGIL-FP Comparto Ministeri

Anna GRECO

mercoledì 3 dicembre 2008

FP CGIL LOMBARDIA

TRUFFA' ED OPPORTUNITA'

Nella condivisione totale di quanto espresso dalla collega Anna Greco, concordando nella lettura del delicato momento di transizione che stiamo attraversando, approfitto dell’occasione per riferirvi le mie riflessioni sulla riunione della Delegazione trattante nazionale per il Comparto ministeri penitenziario.

Prima però ritengo necessario partire dal momento storico che tutto l’assetto sindacale e sociale sta attraversando: è evidente che questo governo vuole smembrare pezzi del lavoro pubblico per renderli appetibili al business privato (il nostro Comparto non fa eccezione), realizzando cassa nell’intervento sui lavoratori pubblici, salvo mettere in crisi le stesse amministrazioni pubbliche che devono salassarsi per pagare le numerose visite fiscali causate dagli interventi della legge 133/08 (e non solo).

Le nostre prossime tredicesime ahimè non subiranno né interventi né integrazioni, come avevamo richiesto, con la restituzione del drenaggio fiscale.

Scendendo nei dettagli del nostro ambito, è dei giorni scorsi il grave cambiamento che si vuole applicare, solo per questioni di economicità, al settore minorile, assimilandolo a quello degli adulti, a cominciare dal passaggio del personale civile al Dipartimento Organizzazione Giudiziaria con la creazione di una Direzione Generale minorile. Da questo è facile prevedere il futuro assorbimento dei detenuti minori nelle carceri per adulti, con buona pace del trattamento personalizzato e della necessità di organizzare percorsi ad hoc in strutture dedicate.

Lo scenario si arricchisce poi di spinte rivendicative scomposte e coordinate da forze sindacali minoritarie che soffiano sulle divisioni e sul malcontento, umiliando i lavoratori con parallelismi assurdi e truffaldini allo scopo di rastrellare tessere e consensi.

Anche dai lavori svolti nei due incontri finora effettuati dalla delegazione trattante, è emerso il malessere dei posti di lavoro di tutti i lavoratori ministeriali (il penitenziario è sensibile alle lusinghe di ipotetici approdi al comparto sicurezza sul modello forestale come i giudiziari sono tesi a rivendicare la creazione di un dipartimento giudiziario; la sanità penitenziaria si avventura in quella pubblica in molte realtà senza “rete di protezione” e, ovunque, soffia il vento del corporativismo). La Delegazione Nazionale ha dunque ritenuto necessario assumere un preciso profilo di politica sindacale sull’argomento.

E’ stato infatti ribadito il fermo intento della FP CGIL di non cedere la dignità dei lavoratori a nessun prezzo, ritenendo quale unica possibilità di valorizzare le diverse figure professionali l’integrazione dell’articolato contrattuale: superamento dell’accordo sui buoni pasto, formazione professionale integrata con agenzie formative istituzionali (Università), riconoscimento dei crediti formativi finalizzato alla progressione in carriera, migliore trattamento accessorio e penalizzazioni alle amministrazioni che dilazionano i rimborsi dei lavoratori o non osservano gli accordi siglati per mobilità e straordinari, solo per citare alcuni aspetti suscettibili di integrazioni ed arricchimenti.

La FP CGIL non spinge gli operatori sulla china pericolosa dell’assimilazione al comparto sicurezza per una serie di motivi che nulla hanno a che vedere con le accuse di politicizzazione dell’azione sindacale: chi ci conosce sa che abbiamo scioperato contro Prodi, Berlusconi e quanti abbiano espresso difformità rispetto agli accordi presi. La CGIL non è un sindacato concertativo ad oltranza né di lotta aprioristica, è solo il sindacato dei lavoratori per i lavoratori.

Perché dunque questa avversione alla fusione del comparto ministeri al comparto sicurezza del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria? Perché anzitutto verrebbero perse una serie di prerogative tipiche del contratto privatistico del comparto Ministeri (possibilità di scioperare, di eleggere RSU, di svincolarsi dalla dipendenza gerarchica mantenendo quella funzionale), per entrare a costo zero (il solo che il bilancio nazionale può permettersi in questo momento) nella sicurezza… come hanno fatto del comparto forestale. Sapete come stanno il lavoratori di quel comparto? Né ministeriali né poliziotti ma sospesi in un limbo che, oltre a tanta incertezza lascia amarezza e peggiori condizioni di lavoro. O forse si preferisce l’inquietudine della sanità penitenziaria che ha un transito tumultuoso proprio per l’esiguità dei fondi messi a disposizione?

Si è riflettuto anche sul ragionamento che se tanta è la necessità di barattare identità e indennità in cambio dei diritti faticosamente maturati in linea con gli altri ministeri, perché non proporre un concorso interno, riservato ed agevolato per i dipendenti con un’anzianità minima, così da poter accedere effettivamente e completamente alle prerogative del comparto sicurezza?

In tutta questa confusione il nostro sindacato ha salda l’idea della tutela dei diritti e delle esigenze di tutte le parti sociali, dei diritti di cittadinanza degli utenti i servizi pubblici e dei lavoratori, di quelli penitenziari fra gli altri, e non intende lanciarli in avventure senza prospettive coerenti coi mandati istituzionali o prive di un complessivo, solido e convincente assetto finanziario e operativo. Si tratta dell’esistenza delle persone, non di una roulette in cui si gioca d’azzardo!!

Proprio su questo la Delegazione trattante ha pensato di intervenire: sulla valorizzazione delle professionalità esistenti attraverso il contratto integrativo e le nuove declatatorie professionali, stimolando la progressione attraverso periodiche e costanti ipotesi integrate da formazione professionale sia interna che esterna all’amministrazione di appartenenza e limitando per quanto possibile la discrezionalità del dirigente.

Quale potrebbe essere lo scenario senza questa proposta alternativa? Un carcere tutto polizia e ruolo tecnico sottoposto ad una dipendenza funzionale da chi?

Non è sufficiente la confusione tuttora vigente fra comandanti e dirigenti per l’esercizio del potere?

La lotta sarà dura, perché se c’è, come abbiamo visto, chi non sa o non vuole intervenire per evitare ogni progressione del potere d’acquisto dei salari, colpendo per reperire ciò che resta dei redditi fissi, c’è anche chi glli fa da spalla affievolendo la forza di aggregazione del sindacato ed accentuando le divisioni.

Questo l’unico obbiettivo visibile: economizzare sempre e comunque sul lavoro ammantandosi con coltri di ipocrisia e falsità.

Occorre invece attrezzarsi sui posti di lavoro per respingere questi ennesimi tentativi di parlare alla “pancia” dei lavoratori più che al loro cervello, e nello specifico porre in essere tutti quei collegamenti che serviranno a riequilibrare l’attività amministrativa e trattamentale penitenziaria.

Gli stipendi esorbitanti dei dirigenti, il miraggio della vice dirigenza, il bombardamento mediatico ed informatico cui siamo soggetti serve solo allo scopo di confondere ed illudere con false promesse, tanto più fraudolente quanto più avanzate con approssimazione da chi invece dovrebbe sentire tutto il peso della responsabilità di coordinare e guidare i lavoratori.

Noi, sono convinta, sapremo rispondere da lavoratori con dignità a queste lusinghe, forti di quello che abbiamo imparato anche, spesso, nella nostra vita sindacale con la nostra presenza ed il nostro impegno serio, sincero e costante; senza “effetti speciali” ma con leale, realistico ragionamento.


La Coordinatrice Regionale FP CGIL Lombardia
Comparto Penitenziario Ministeri
Barbara Campagna

Norme a Tutela dei Mestieri e delle Professioni di Aiuto alla Persona dalla Sindrome di Burnout

S. 443 Rosario Giorgio Costa (PdL)

DDL 443 (testo PDF PDF)- Assegnato alla 11ª Commissione permanente (Lavoro, previdenza sociale) in sede referente il 2 luglio 2008. Annuncio nella seduta ant. n. 30 del 2 luglio 2008.
Pareri delle commissioni 1ª (Aff. cost.), 2ª (Giustizia), 5ª (Bilancio), 7ª (Pubb. istruz.), 12ª (Sanita'), Questioni regionali

E-mail:
costa_r@posta.senato.it
segreteriacosta@tiscali.it

Stress lavorativo e tutela della persona dell'operatore

Maurizio Mottola
Psychomedia


Le problematiche relative allo stress lavorativo ed alla gestione delle risorse umane hanno acquisito negli ultimi anni una particolare rilevanza; viene finalmente riconosciuta l'importanza dei fattori psicologici lavorativi e dell'impatto che possono avere sul benessere dell'individuo, prendendo atto di una letteratura scientifica ampiamente consolidata.
Il Piano Sanitario Nazionale 2006-2008 riconosce infatti come accanto alle patologie da rischi noti (prevalentemente in attenuazione) stiano acquisendo sempre maggiore rilievo le patologie da rischi emergenti come le Patologie da fattori psico-sociali associate a stress (burn-out, mobbing, eccetera), meglio identificate come le Malattie psichiche e psicosomatiche da disfunzioni dell'organizzazione del lavoro; tali patologie, cosiddette da costrittività organizzativa, sono riconosciute come malattie professionali e prevedono la obbligatorietà della denuncia all'INAIL (Gazzetta Ufficiale n. 70 del 22/3/2008, Supp. 68).
Al professionista di oggi la società richiede flessibilità, competenza e maggiore professionalità, quali esiti di una formazione alla professione più globale, che comprende aspetti tecnici, psicologici, manageriali. Tale importanza scaturisce dall'interesse attuale per fenomeni come il burn-out, direttamente correlati a condizioni di distress lavorativo con conseguenze negative che possono essere causa di "errore professionale", "difficoltà nel rapporto con il paziente con minore empatia e sensibilità", "tensione ansia e depressione dell'operatore".
Queste conseguenze si riflettono negativamente ed inevitabilmente sulla efficacia del servizio sanitario nazionale e comportano una complessiva riduzione della qualità delle prestazioni. Da qui la necessità di realizzare adeguati programmi di prevenzione dello stress lavorativo attraverso strategie ben precise mirate alla formazione degli operatori ed all'organizzazione del lavoro e ad una sempre migliore e più qualificata gestione delle risorse umane.
A tal proposito il Disegno di Legge n. 443 d'iniziativa del senatore Costa, comunicato alla Presidenza l'8 maggio 2008, si intitola proprio Norme a tutela dei mestieri e delle professioni di aiuto alla persona dalla sindrome di burnout e consta di 5 articoli.
Il termine burn-out, proveniente dall'ambito sportivo, è stato proposto in ambito socio-sanitario per la prima volta nel 1975 dalla psichiatra americana Christina Maslach, la quale l'ha definita come "caratterizzata da esaurimento emozionale, depersonalizzazione e riduzione delle capacità personali". Riguarda le professioni dell'aiuto che comprendono figure come medici, infermieri, psicologi, insegnanti, assistenti sociali.
Le cause del fenomeno più frequenti sono: il lavoro in strutture mal gestite, la scarsa o inadeguata retribuzione, l'organizzazione del lavoro disfunzionale o patologica, lo svolgimento di mansioni frustranti o inadeguate alle proprie aspettative, oltre all'insufficiente autonomia decisionale ed a sovraccarichi di lavoro.
Però si distingue dallo stress, così come si distingue dalle varie forme di nevrosi, in quanto nella sindrome del burn-out prevalgono gli aspetti e le circostanze del ruolo lavorativo rispetto alle caratteristiche ed all'assetto della personalità del soggetto.
L'esaurimento emotivo consiste nel sentimento di essere emotivamente svuotato e annullato dal proprio lavoro, per effetto di un inaridimento emotivo nel rapporto con gli altri. La depersonalizzazione si manifesta come un atteggiamento di allontanamento e di rifiuto (risposte comportamentali negative e sgarbate) nei confronti di coloro che richiedono o ricevono la prestazione professionale, il servizio o la cura.
La ridotta realizzazione personale riguarda la percezione della propria inadeguatezza al lavoro, la caduta dell'autostima e la sensazione di insuccesso nel proprio lavoro. L'insorgenza della sindrome del burn-out negli operatori sanitari segue generalmente quattro fasi: la prima fase è quella dell'entusiasmo idealistico, la seconda fase quella della stagnazione, la fase più critica è la terza quella della frustrazione, a cui segue la quarta fase quella dell'apatia, che si può configurare in una vera e propria morte professionale.
Secondo l'Osservatorio per le politiche sociali in Europa di Inca CGIL di Bruxelles, l'Italia è lo Stato dell'Unione in cui si registra il maggior numero di stressati da lavoro: ben il 27% del totale, contro una media europea del 22%.
Il decreto legislativo 66 del 2003, provvedimento che regolamenta il periodo di riposo dei medici, dopo una guardia notturna o dopo il servizio diurno, verrebbe disatteso se si insiste a non concedere nel rinnovo del contratto congrue ore di riposo ai medici dopo un turno di lavoro: un riposo indispensabile per la tutela della salute sia del medico sia anche del paziente. Questo conflitto tra istituzioni ed operatori evidenzia una realtà paradossale del nostro sistema sanitario: il livello dei servizi è garantito solo disapplicando in modo sostanziale una normativa europea su recuperi, turni, guardie, riposi, varata per garantire la salute degli operatori e la sicurezza degli utenti dei servizi sanitari.
Gli studi dimostrano, infatti, come dopo 12 ore di veglia la risposta individuale sia considerevolmente alterata. E l'alterazione è maggiore quanto più si sta svegli. Non solo. In caso di prestazioni impegnative dal punto di vista fisico o emotivo diminuisce ancora di più la capacità di controllo: alcune ricerche hanno addirittura rilevato che nelle ore finali dei turni di notte, il 30 per cento circa di errori poteva essere evitato.
Ci sono, come al solito, segnali contrastanti e che si muovono in direzione opposta: da un lato l'iniziativa di tutelare la persona del professionista d'aiuto con un disegno di legge sul burn-out, dall'altro la pervicace posizione di voler derogare al decreto legislativo 66 del 2003 (di adeguamento alla normativa europea) per diminuire il numero di ore di riposo tra un turno lavorativo e l'altro, con la pretestuosa motivazione di mantenere lo standard organizzativo del servizio sanitario nazionale: il prezzo sarebbe a danno dei cittadini con l'aumento degli errori professionali nell'erogazione delle prestazioni sanitarie.

Giustizia: il "metodo Brunetta", per il personale penitenziario?

di Emilio Gioventù

Italia Oggi, 3 dicembre 2008

Cercasi disperatamente personale per gli istituti di pena italiani. Agenti di polizia penitenziaria e personale civile scarseggiano. Ci vorrebbe un colpo alla Renato Brunetta per ovviare all’impossibilità di fare nuove assunzioni. Magari un bel trasferimento d’ufficio di personale in esubero della Pa lì dove ci sono posti da coprire oppure il ricorso a "processi di rafforzamento delle motivazioni professionali e lavorative".

E a questo che vorrebbe aggrapparsi il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, quando si mette di impegno a rispondere a due interrogazioni sull’argomento presentate dai deputati Franco Ceccuzzi del Pd e da Tommaso Foti del Pdl. Il primo, nell’interrogazione cita stime di Cgil e Cisl che indicano "una carenza di organico del 30% per quanto riguarda la polizia penitenziaria e del 75% per le aree pedagogica, amministrativa e contabile".

Alfano risponde per iscritto: "Per sopperire alle esigenze di servizio la direzione è stata supportata dal provveditorato competente attraverso l’assegnazione di 46.856 ore di straordinario, con un evidente incremento rispetto al biennio precedente il cui monte ore si attestava mediamente intorno alle 42 ore".

Intanto, in attesa di poter procedere a nuove assunzioni, tocca affidarsi al "recupero e alla razionalizzazione delle risorse umane esistenti, attraverso processi di rafforzamento delle motivazioni professionali e lavorative", è la risposta di Alfano che si ripete anche nella replica a Tommaso Foti che passa ai raggi X le carenze d’organico in 13 istituti penitenziari dell’Emilia Romagna.

E qui, leggendo la risposta di Alfano, il pensiero va appunto a Brunetta quando si legge che il Dap (il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria) "mediante l’adozione di provvedimento di mobilità ordinaria ha incrementato il personale" per le sedi di Bologna, Ferrara, Piacenza e Parma. Anche questa volta Alfano torna a ribadire che in attesa di poter assumere nuove unità si potrebbe pensare a motivare i dipendenti, magari adottando "sistemi di sorveglianza nuovi, capaci di valorizzare la flessibilità del servizio istituzionale" e soprattutto "in grado di assorbire meglio il maggiore carico di lavoro determinato dalla crescita della popolazione detenuta".

Colpi di professionalità creativa a parte, resta in generale il problema della carenza di organico nell’amministrazione penitenziaria. Secondo gli ultimi dati statistici forniti mancherebbero all’appello poco meno di 2.000 agenti e assistenti e una ventina di ispettori di polizia penitenziaria. Così come all’appello mancherebbe più di un migliaio di personale cosiddetto civile, ovvero di competenza ministeriale.

martedì 2 dicembre 2008

41° Convegno nazionale SEAC " I diritti dei detenuti"

Intervento di Anna Muschitiello segretaria nazionale Casg

Ringrazio il SEAC e gli organizzatori di questo Convegno per aver ancora una volta invitato il CASG in rappresentanza del servizio sociale della giustizia, dandoci la possibilità di esprimere, in un contesto così qualificato, un pensiero che mai come oggi va contro corrente.

Pensiamo non sia un caso che il titolo dell’incontro odierno faccia riferimento ai diritti dei detenuti e alla Costituzione.

Il riferimento all’art. 27 3° comma, soprattutto nella prima parte in cui afferma che:” Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, e il riferimento alle “Regole penitenziarie europee”, che nell’art. 4 recitano:“La mancanza di risorse non può giustificare condizioni di detenzione che violino i diritti umani”, ci fa riflettere su quanto la civiltà giuridica di questo paese stia arretrando su principi che ormai tutti davamo per acquisiti.

Le attuali condizioni dei nostri penitenziari ci fanno interrogare sulla possibilità concreta di riuscire a rispettare i diritti umani, perché purtroppo sappiamo che le condizioni stesse di sovraffollamento, nuovamente raggiunte dopo l’indulto del 2006, non consentono il rispetto della dignità umana e di condizioni non degradanti.e riteniamo che ciò sia ben poco consolante a distanza di 33 anni dall’approvazione dell’Ordinamento penitenziario. Del resto, non può stupirci questo arretramento nell’ambito penitenziario se pensiamo a come, oggi, appaiono messi in discussione i più fondamentali diritti anche per i cittadini liberi.

La profonda crisi socio-politica, che sta attraversando la nostra società, sta mettendo in discussione i principi fondamentali della democrazia, che l’hanno regolata per decenni; nel nome di una “ventilata sicurezza” si stanno riducendo gli spazi di democrazia e libertà per tutti i cittadini. Siamo convinti che la percezione dell’insicurezza sia reale, ma, siamo altrettanto convinti, che la causa abbia radici più profonde e che la sua soluzione richieda risposte più complesse di quelle attuali, estremamente semplificate.

La semplificazione delle risposte e/o le risposte “immediate”finiscono per generare un effetto contrario, una “ spirale chiusa” (più paura = più insicurezza = più paura) infatti : “la paura, difficilmente razionalizzabile, indistinta e generica è la condizione peggiore per l’affermazione della pace sociale”( Thomas Hobbes)

Oggi è la stessa società liberale che sembra trovare economicamente e politicamente conveniente alimentare una paura indistinta e anonima. Questo rende il bisogno di sicurezza un bisogno mai appagato, che neppure lo Stato riesce a trasmettere sicurezza attraverso la legge e l’ordine.

Negli anni passati, sia per competenza che per esperienza professionale, abbiamo intuito e detto in incontri pubblici che se si fossero affrontati i problemi della devianza e della marginalità solo con la logica del controllo e della sicurezza (intesa come ordine pubblico) ne avrebbe sofferto la natura democratica della nostra società e con essa anche i diritti fondamentali di cittadinanza.

Oggi stiamo, infatti, tutti assistendo ad una crisi generalizzata della democrazia, , almeno nelle forme in cui l’abbiamo conosciuta nei decenni passati in Italia. Ci sentiamo tutti impotenti di fronte a quanto sta avvenendo in questi ultimi tempi e noi operatori del sociale lo avvertiamo ancora di più. Vediamo che vengono messi in discussione anche i diritti fondamentali dei cittadini liberi e assistiamo a fenomeni che non pensavano possibili nel nostro paese, quali: la xenofobia diffusa, l’intolleranza verso tutto ciò che sembra diverso, sia esso il colore della pelle o il modo di parlare e di vestire, per non parlare dell’arretramento anche rispetto ai diritti dei lavoratori compresi quelli pubblici e penitenziari in particolare, all’attacco alle libertà di espressione e di opinione ecc.

In tutto questo il carcere sta assumendo ormai un ruolo preponderante ed è ormai visto non più come extrema ratio (termine ormai sparito anche dai convegni) da applicarsi solo ai crimini più gravi ed efferati, ma come ordinario controllo dei comportamenti ritenuti nemmeno devianti, ma solo fastidiosi, diversi, anomali…..e tutto questo sta avvenendo a dispetto di quanto ormai è dimostrato dalle ricerche sociali e studi statistici, ma anche dal semplice buon senso che ci dovrebbe far capire che il carcere non è lo strumento più adatto per trovare una soluzione a questi problemi.

Noi addetti ai lavori siamo ancora convinti che il carcere non aiuta a migliorare gl’individui, non dà un contributo effettivo alla diminuzione della recidiva e quindi non garantisce alcuna sicurezza; siamo, però, stanchi di continuare a sostenerlo, in quanto sembra che questa semplice realtà non interessi nessuno, perché nessuno vuole più ascoltare ragioni.

A questo punto vi chiederete cosa centra tutto questo con i diritti dei detenuti....questo centra eccome!!! Oggi siamo nella stessa situazione di sovraffollamento del 2006; le scelte di politica penale, a scapito delle politiche sociali, fatte negli ultimi anni non hanno fatto altro che peggiorare la situazione, facendo aumentare giorno dopo giorno la popolazione carceraria (al ritmo di 1000 unità al mese) senza avere a disposizione uno straccio di soluzione reale.

In tempi non sospetti la nostra associazione aveva segnalato che se pur necessario, l’indulto non sarebbe bastato a risolvere i problemi e che per rendere tale provvedimento adeguato alla domanda di giustizia e di legalità che i cittadini rivendicavano; era necessario avviare un processo di riforma del sistema penale nel suo complesso, del sistema giudiziario italiano e investire nelle politiche sociali, perché è necessario lavorare in sinergia con le politiche sociali e del lavoro per attivare immediati percorsi di inclusione sociale.

Tale processo di riforma non solo non è stato perseguito, ma si è proceduto a modificare in senso ancora più restrittivo tutte quelle leggi che negli ultimi anni sono servite ad aumentare la penalità, influendo pesantemente in termini di inefficienza sul sistema giudiziario e penitenziario del nostro paese.

Non si vedono emergere proposte che possano, a nostro parere, andare nella direzione giusta per cominciare ad affrontare i veri problemi:

Non si è fatto niente rispetto alla riforma del codice penale né sembra si voglia fare, non si è affrontato lo sfascio del sistema giudiziario, di contro si è reso molto più difficile l’accesso alle misure alternative.

Contemporaneamente non si è nemmeno fatto ricorso a quelle soluzioni ventilate come risolutive quali:

1. costruire nuove carceri perché richiede troppo tempo e troppi soldi

2. espellere più persone straniere (anche su questo non si è fatta altro che demagogia perché le espulsioni di massa sono troppo onerose per il nostro sistema e difficili da effettuare),

3. braccialetto elettronico (soluzione già affrontata e abbandonata qualche anno fa perché onerosa e inutile in quanto applicabile solo su pochi e selezionati casi) ;

né tanto meno possiamo ricorrere ancora ad una misura clemenziale, considerato come è stato affrontato l’ultimo provvedimento di indulto.

Ci preoccupa sentire che tra le soluzioni ventilate per affrontare il sovraffollamento si pensa di ricorrere alle camere di sicurezza presso le questure o alla moltiplicazione delle strutture quali gli ex CPT, nonché all’aumento dei giorni di permanenza in tali strutture e ciò, dal punto di vista del rispetto dei diritti umani, la situazione si fa ancora più preoccupante perché paradossalmente il carcere con le sue regole ben definite dà molte più garanzie di questi luoghi. Non è un caso se gli episodi peggiori di non rispetto della dignità umana emersa ultimamente sulla stampa hanno riguardato persone appena arrestate e detenute nei commissariati. Per non parlare dei soggetti in misura alternative che, se pur in una condizione meno drammatica delle persone detenute in carcere, hanno diritto ad essere assistite e seguite adeguatamente (da operatori esperti nella professione di aiuto e nelle scienze sociali), nei loro percorsi di inclusione sociale e non essere a loro volta oggetto di abusi e vessazioni.

Ci troviamo quindi del tutto disarmati e impotenti di fronte al crescere inarrestabile della popolazione detenuta e continuando così, (non siamo certo noi i primi a dirlo), la situazione rischia l’ingovernabilità e la soluzione che andrà inevitabilmente trovata non potrà che utilizzare metodi non democratici.

Perché allora ci si ostina a considerare la carcerazione l'unica pena possibile, quando ormai è accertato che non funziona, oltre ad essere estremamente costosa per la collettività?

Perché le soluzioni a portata di mano, molto più economiche ed efficaci nessuno le vede?

Sappiamo tutti che l’ accesso alle misure alternative ha contribuito sicuramente a restituire alla società tanti soggetti, che avevano commesso reati, più responsabili e rispettosi della legalità, infatti i dati relativi all’area penale esterna e all’utilizzo delle misure alternative negli ultimi trent’anni, sono stati estremamente significativi e positivi in quanto:

Þ la spesa per le casse dello stato è stata sicuramente irrisoria rispetto ai costi del carcere;

Þ il “tasso di evasione”, così come rilevato dai dati statistici degli Uffici centrali del DAP, è marginale

Þ la recidiva (sempre confrontando i dati statistici) risulta inferiore a quella dei soggetti dimessi direttamente dal carcere (il 19% di recidività contro il 68% per i dimessi dal carcere).

Spiace sentire il Capo del DAP sminuire anche questi dati, dicendo che la differenza dipende soprattutto dalla diversa pericolosità sociale dei soggetti ammessi alle misure alternative rispetto a quelle detenute. Noi sappiamo che da anni alle misure alternative possono accedere anche persone con condanne molto alte e la maggioranza della popolazione detenuta è costituita non da pericolosi delinquenti, ma per lo più da soggetti appartenenti alla marginalità sociale.

Riteniamo, però, che non sia più tempo di ripetere queste cose tra noi addetti ai lavori, ma occorre trovare il modo per fare arrivare le nostre ragioni alla cittadinanza più estesa e nei luoghi dove si forma l’opinione del cittadino comune per fargli comprendere che il non rispetto dei diritti dei cittadini detenuti e l’introduzione di metodi di governo non democratici delle carceri prima o poi comportano la compressione dei diritti e degli spazi di democrazia per tutti i cittadini.

E’ necessario rompere il circolo vizioso che si è creato intorno al tema della sicurezza se non si vuole tornare indietro ai tempi più bui della nostra storia e se si vuole promuovere una cultura di convivenza sociale solidale e multietnica senza conflitti ed emarginazione.