venerdì 30 novembre 2007
DIRITTO E GIUSTIZIA
di Alberto Marcheselli (Magistrato di Sorveglianza)
Ciclicamente, in occasione di ogni campagna elettorale o di qualche fatto di cronaca eclatante, si torna a parlare di sicurezza dei cittadini, efficacia della giustizia, disumanità della vita nelle carceri. Problemi che sono abitualmente affrontati con un approccio in cui tendono a prevalere atteggiamenti emotivi, più ancora che fattori ideologici. Resta latitante, almeno nel dibattito pubblico, qualsivoglia traccia di analisi dei dati obiettivi.
Certezza e flessibilità della pena
Sono del tutto ignorate le interrelazioni dei vari fenomeni, né è compresa la loro rilevanza sulla qualità della vita quotidiana dei cittadini e i pesanti costi sociali correlati.
L’opinione pubblica è informata delle questioni e delle riforme concernenti la giustizia nella dimensione del processo penale, ma un cono d’ombra sembra avvolgere il mondo della esecuzione della pena.
Si tratta di una realtà tutt’altro che di nicchia: non solo coinvolge mediamente gli oltre 70 mila condannati (valore medio di persone in esecuzione di pena in Italia al lordo e a monte dei provvedimenti di indulto), ma anche le migliaia di persone vittime di reati. Più in generale, la percezione del rischio criminale determina atteggiamenti e comportamenti concreti di tutti noi (dall’acquisto di porte blindate al non circolare in certi quartieri la sera): non è difficile immaginare l’entità dei costi sociali connessi al fenomeno della microcriminalità, anche se sarebbe arduo misurarli esattamente.
Eppure, quando si parla di efficacia della giustizia e di lotta alla criminalità, non si sfugge dalla contrapposizione, che ha sapore di slogan, tra certezza e flessibilità della pena. Sostanzialmente, la certezza della pena (meglio, la sua rigidità) garantirebbe la sicurezza dei cittadini, ma porrebbe a rischio l’umanità della sua esecuzione, mentre la sua flessibilità si tradurrebbe in una forma di impunità criminogena, pur essendo meglio compatibile con una attuazione umanitaria e costituzionalmente orientata della sanzione.
Verifiche e investimenti
Ma una simile impostazione regge a una verifica operata con criteri scientifici, almeno in senso lato? La efficienza del sistema è, evidentemente, correlata alla sua idoneità allo scopo, che per la sanzione penale è evitare la recidiva del condannato e la istigazione a delinquere per i terzi. È per questo che si dovrebbe preferire parlare, come già fatto in queste colonne, di pena adeguata, uscendo dal loop ossessivo di pena certa - pena flessibile.
Un discorso serio e obiettivo sulla materia, comunque, non dovrebbe quindi prescindere da criteri di misurazione di tali fattori. Nonostante le apparenze, non è una rilevazione difficile.
Si tratta di assumere come base di elaborazione il numero di persone che hanno completato una pena espiata in forma alternativa alla detenzione (pena flessibile) in un periodo dato, verificare se e quante di queste persone ricadano nel delitto durante o dopo la misura. Il dato va confrontato con quello ottenuto da un campione di persone che nello stesso periodo abbiano espiato una pena solo carceraria (pena rigida). Il confronto tra i due dati mostra quale sia il risultato dei due sistemi, al di là di ogni preconcetto ideologico.
È stupefacente come un approccio del genere sia per lungo tempo mancato nella cultura giuridica e politica italiana (per un interessante lavoro in tale direzione si veda Tucci R., Santoro E., Rapporto conclusivo Progetto Misura sulla recidiva, Firenze, 2004). E come, peraltro, alla effettuazione di tali primi tentativi di misurazione non sempre si accompagnino considerazioni sicuramente fondate sul piano scientifico.
Tale appare ad esempio la diffusa affermazione secondo la quale, ammesso che il tasso di recidiva successivo alla misura alternativa sarebbe minore di quello che risulta dopo la carcerazione, se ne dovrebbe desumere non un giudizio di buon andamento del sistema delle misure alternative (che ne è la conseguenza logica e dovrebbe essere la base di partenza di una dialettica ragionevole) ma la conclusione che le misure alternative dovrebbero trovare una generalizzata applicazione e una applicazione in via automatica.
Questo, ad esempio, è stato affermato in occasione di riflessioni sulla riforma del codice penale, laddove si tende ad affermare che il ricorso alla misura alternativa andrebbe direttamente previsto nella legge incriminatrice. Questa conclusione appare frutto di un cattivo sillogismo sotto almeno due profili. Il primo, già sottolineato in altro intervento su queste colonne, laddove collega la sanzione al solo fatto e non alla personalità del colpevole: anche ad ammettere, ad esempio, che una misura alternativa sia adeguata alla commissione del primo delitto di ricettazione, la stessa valutazione regge per chi commetta la trentesima ricettazione della sua vita? E, inversamente, ammesso che una rapina sia, di norma, un fatto grave, è proprio sicuro che tutti i rapinatori meritino il carcere?
Il secondo errore si annida laddove si trae un rafforzamento alla soluzione dell’automatismo delle misure alternative dal fatto che la recidiva dopo di esse sarebbe minore che dopo la carcerazione. Ebbene, ammesso il dato - obiettivo - della minor recidiva dopo le misure alternative, quanto dipende dalla maggiore efficacia in sé delle misure alternative e quanto dal fatto che alla misura alternativa sono ammesse le persone che sono valutate più meritevoli, quindi risocializzabili e quindi meno propense alla recidiva? Le misure alternative sono, insomma, oggettivamente più idonee o, più semplicemente, sono applicate ai soggetti che sono più facilmente risocializzabili?
Desumere dalla minore recidiva dopo le misure alternative che esse dovrebbero essere applicate a tutti contiene un errore logico: si confronta la recidiva di persone diverse, non solo dopo misure diverse.
E contiene una altrettanto grossolana trascuratezza circa il fatto che, tra la inflizione della pena e la sua concreta applicazione o trasformazione si trova la Magistratura di Sorveglianza, che stabilisce il tipo di pena applicabile in concreto.
Parlare di automatismo delle misure alternative equivale insomma, per usare una metafora, a dire che dato che dopo l’introduzione dei semafori gli incidenti agli incroci stradali sono statisticamente diminuiti, ormai si possono... eliminare i semafori.
In tale quadro di generale confusione concettuale, le cui responsabilità appaiono principalmente imputabili alla scarsissima cultura penitenziaria diffusa, non stupisce che, nel giro di tre anni, si succedano strumenti scoordinati e di segno sostanzialmente opposto come il cosiddetto indultino del 2003, la legge ex Cirielli del 2005 e l’indulto nel 2006: il primo volto a un automatico svuotamento degli istituti penitenziari senza alcun serio intervento di supporto, sostegno e controllo delle persone scarcerate, la seconda pensata per escludere l’espiazione della pena fuori dal carcere per i soggetti recidivi nel delitto, la terza ispirata nuovamente alla finalità di alleviare la gravità della situazione penitenziaria e la tensione sul principio del rispetto dei diritti umani, determinata dalla condizione di obiettivo degrado e sovraffollamento delle strutture. Su tali interventi normativi, poi, non solo è mancata, spesso, una adeguata analisi progettuale preliminare, ma, anche e soprattutto, il necessario follow up nella attuazione concreta.
Continua infatti a sfuggire, se non nella cerchia degli operatori del settore, che la scelta verso una pena flessibile richiede investimenti cospicui in termini di strutture di supporto, sostegno e controllo. Mentre la scelta opposta comporta o condizioni di vita disumane all’interno degli istituti penitenziari o la necessità di onerosissimi interventi sulla edilizia penitenziaria e in genere sui mezzi personali e materiali.
Per rendersene conto, basta riflettere sul fatto che, dati ufficiali alla mano, prima dell’indulto erano 37mila le persone che espiavano la pena fuori dal carcere: un numero elevatissimo e esattamente pari a quello di chi scontava la condanna in carcere. (Dati ufficiali ministero della Giustizia I semestre 2005). 37mila vicende criminali che necessitano di supporto e controlli (e quindi, investimenti), e alle quali si può ragionevolmente ricollegare una grossa parte del disagio personale e sociale di grandi aree del paese.
D’altra parte, la pena rigida, in parte attuata dal legislatore della legge ex Cirielli, andrebbe adottata solo una volta constatata l’inadeguatezza dell’altra, che al momento non risulta affatto, anzi. E in ogni caso questa scelta imporrebbe di reperire strutture penitenziarie adeguate. Ipotizzando l’esecuzione penitenziaria per solo la metà delle persone che scontavano la pena all’esterno, si dovrebbero trovare 18.500 posti in carcere. Si tratterebbe dunque di progettare la costruzione di trentasette nuovi istituti di medio - grandi dimensioni (da 500 posti), per un costo verosimile di svariate centinaia di milioni di euro. Ciò per tacere dei mezzi finanziari necessari al reperimento del personale da destinare a tali istituti e di quelli necessari all’adeguamento delle strutture esistenti a standard di umanità.
Si tratta di somme incomparabilmente superiori a quelle necessarie al potenziamento dei supporti al sistema delle misure alternative e, probabilmente e altrettanto significativamente, non più produttive di risultati in termini di sicurezza sociale.
Continuare a procedere in modo episodico e scoordinato, dal punto di vista concettuale, e senza adeguati investimenti, sul piano materiale, comporta, di fatto, scegliere tra la seguente alternativa: tra il rischio di un carcere disumano che calpesta i più elementari diritti delle persone, da un lato, o una pena esterna al carcere senza che ai condannati siano garantiti supporti e controlli idonei, dall’altro.
Non si tratta dunque di riforme a costo zero, come normalmente si dice, per giustificarne più o meno esplicitamente la adozione, ma di riforme a costo occulto, un costo enorme, traslato nel primo caso sulle persone detenute, conculcate nella loro sfera individuale e umana più sacra, ovvero sulle vittime dei reati, che spesso sono, come i detenuti, i soggetti socialmente più deboli. Un quadro non confortante per un paese civile nel terzo millennio.
REDATTORE SOCIALE
Colombo: ''No alla sanzione come pena''
L'ex consigliere della Corte di Cassazione al convegno del Seac: ''La devianza, strumento per sopravvivere''. Al volontariato il ruolo di portare il carcere fuori dal carcere.
Ripartire dalle cause e dalle conseguenze della detenzione per comprendere i difetti del nostro sistema penale. Ha il sapore della provocazione l'intervanto che Gerardo Colombo, ex consigliere della Corte di Cassazione, ha svolto ieri al convegno nazionale del Seac, il Coordinamento degli enti e associazioni di volontariato penitenziario che celebra quest"anno il suo quarantesimo anniversario. "Fino a quando penseremo alla sanzione come 'pena', una sofferenza da infliggere all"individuo in misura proporzionale al male arrecato, saremo in contraddizione non solo con i principi fondamentali della Costituzione ma anche con quelli della nostra società”. E questo perché, ha spiegato il magistrato, il modello sanzionatorio correntemente applicato nelle carceri è tipico di un modello di comunità gerarchico e piramidale, che sopravvive oggi in società che aspirano ad essere egualitarie e rispettose dei diritti umani, come una contraddizione profonda. Che si esplica a partire dall’incapacità di agire preventivamente sulle ragioni della devianza: "Applichiamo un unico rimedio ad una gamma di situazioni che siamo incapaci di distinguere. Ci sono persone che detenute in carcere necessariamente recidiveranno, perché la devianza è lo strumento attraverso il quale possono sopravvivere o salire almeno un gradino della scala sociale”. In questi casi, è ovvio, la soluzione non può essere né il carcere, né la sanzione alternativa, spiega Colombo: “bisogna che queste persone abbiano la possibilità di vivere dignitosamente”.Premesso che molto deve essere risolto prima del carcere, “se pensiamo che la sanzione deve essere utile all’individuo e alla società nel suo complesso in un’ottica di riabilitazione, allora siamo ancora lontani dall’obbiettivo”. Consentire che la giornata tipo di un detenuto si svolga per 21 ore all’interno di una cella, racconta Gherardo Colombo basandosi su un’esperienza diretta all’interno delle strutture carcerarie, è il presupposto stesso per spingerlo a commettere altre violazioni. “L’articolo 4 della Costituzione italiana indica come dovere di tutti i cittadini - e non solo dei cittadini liberi - di svolgere attività, a loro consone, che concorrano al progresso materiale o spirituale della società”. Come si vede, la strada da percorrere per completare quello che è a tutti gli effetti un “processo di modifica della mentalità di base” è ancora lunga. Nel frattempo una delle soluzioni praticabili è quella di coinvolgere il mondo esterno su questi problemi, riportando il tema del carcere all’attenzione dell’opinione pubblica. “Come la morte, come la malattia, il carcere è uno di quelle realtà rimosse dalla nostra cultura. Ma un’esperienza come quella di “Mani pulite”, che portò più di una persona importante a visitare gli istituti di reclusione, ci insegna che tornare a parlare di carcere è utile: allora qualcosa si mosse, qualcosa fu aggiustata, almeno temporaneamente”. Tra le funzioni fondamentali che svolge oggi il volontariato penitenziario c’è proprio quella di portare il carcere fuori dal carcere, oltre quegli ambienti ristrettissimi di addetti ai lavori per riflettere e trovare soluzioni condivise. Infine la provocazione: “ Perché non partire proprio dall’esperienza dei detenuti per ripensare l’organizzazione del sistema carcerario?” chiede Gherardo Colombo. (Ilaria Costantini)
giovedì 29 novembre 2007
SPAZIO: PENSIERI LIBERI
RSU UEPE
NOVARA- VERBANO- CUSIO- OSSOLA- AOSTA
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Esprimiamo solidarietà all'Educatrice del carcere di Volterra brutalmente aggredita e purtroppo non tutelata dalla stessa Amministrazione.
Assistenti Sociali Uepe Cosenza
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Chi vi scrive, è l'unico educatore in servizio presso la Casa circondariale di Aosta-Brissogne.Ovviamente mi aggiungo allo sdegno di quanto successo alla collega ed a tutti gli altri che quotidianamente operano all'interno delle carceri.......
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Solidarietà all'educatrice del carcere di Volterra dagli Assistenti del Uepe di Catania e Ragusa
Il personale tutto esprime profonda solidarietà alla collega educatrice della CR di Volterra, che aggredita da un detenuto durante l’espletamento del suo mandato ha riportato gravi lesioni personali con conseguente prognosi di trenta giorni.
In tale triste circostanza non si può non evidenziare l’inquietudine che tale evento crea in ciascun operatore civile della riabilitazione dei condannati, categoria sottoposta quotidianamente a tensione e altrettanti rischi.
Ulteriore inquietudine è creata dal fatto che il contesto in cui si verifica l’aggressione è l’istituto penitenziario, dove la sicurezza è fondamento per un “clima carcerario” di sostegno alla riabilitazione dei condannati.
Rammaricati per quanto è successo, rinnoviamo la nostra solidarietà alla collega Maria Bevilacqua, augurandole una pronta e serena guarigione; nel contempo auspichiamo che il Ministro della Giustizia e i vertici del DAP rivedano con estrema obiettività le scelte di politica dell’esecuzione penale fin’ora prese, che hanno trascurato le insistenti denunce degli operatori civili
UGL Ministeri
Sen. Clemente Mastella
fax 06.68897951
Al Capo Dipartimento
Amministrazione Penitenziaria
Pres. Ettore Ferrara
fax 06.66165136
Al Provveditore Regionale
Amministrazione Penitenziaria
per la Toscana
D.ssa Maria Pia Giuffrida
fax 055.480196
Al Direttore
della Casa di Reclusione
di Volterra
D.ssa Maria Grazia Giampiccolo
fax 0588.86666
Oggetto: Sig.ra Maria Bevilacqua, educatrice penitenziaria, in servizio presso la C.R. di Volterra.
Ci è giunta notizia soltanto oggi, dell’aggressione patita il 23 novembre u. s. all’interno della Casa di Reclusione di Volterra, dall’educatrice penitenziaria citata in oggetto, da parte di un detenuto.
Le modalità dell’accaduto appaiono particolarmente gravi, in quanto l’aggressore si sarebbe recato al colloquio con il funzionario in argomento, munito di una padella con la quale avrebbe ripetutamente colpito al volto la Bevilacqua, causandole la rottura del setto nasale, la tumefazione di un occhio e numerose altre ferite che hanno richiesto l’applicazione di alcuni punti di sutura sulla fronte.
Questa O. S., chiede di conoscere l’esatta dinamica dell’accaduto, e come mai un episodio di così grave portata sia rimasto fino ad oggi sotto silenzio, e sia emerso solamente per le vie informali.
Si chiede inoltre di sapere come mai un detenuto abbia potuto portare con sé ad un colloquio con un operatore, un oggetto contundente, peraltro di rilevanti dimensioni, eludendo le perquisizioni personali previste dalla normativa penitenziaria.
Si resta in attesa di un cortese sollecito riscontro.
Il Segretario Nazionale
Paola Saraceni
(347/0662930)
UIL- PENITENZIARI E BOZZA DI DECRETO INTERMINISTERIALE
Pres. Ettore FERRARA
Capo del D.A.P.
e per conoscenza,
Cons. Riccardo TURRINI VITA
Direttore Generale U.E.P.E – DAP
Ufficio Relazioni Sindacali
D.A.P.
ROMA
In riferimento alla bozza di decreto sulla sperimentazione dei nuclei di verifica di Polizia penitenziaria presso gli UEPE, inoltrata alle OO.SS. con nota 363641 del 22 novembre u.s., si debbono, purtroppo, riformulare le obiezioni già espresse in occasione dell’ ultimo incontro sul tema.
La nuova bozza, di fatto, ripropone le stesse previsioni della precedente in termini di ingerenze tra le diverse figure professionali; di ambiguità rispetto ai criteri generali dell’attività da svolgere; di confusione in materia di strutture, procedure di verifica e di coordinamento.
Analogamente un giudizio assolutamente negativo si esprime in relazione alla selezione e formazione del personale.
Per questa O.S., appare ineludibile redigere un decreto che ponga al centro del progetto le prerogative in materia di sicurezza che appartengono, per norma, al Corpo di Polizia Penitenziaria.
D’altro canto se l’obiettivo è un maggior ricorso alle misure alternative ciò potrà conseguirsi, senza alimentare ulteriori preoccupazioni nella società, solo assicurando questi controlli che oggi, a detta di tutti, sono insufficienti o inesistenti. Per questo un sistema di controllo affidato al Corpo di Polizia Penitenziaria dovrà essere articolato senza inopportune ingerenze.
Conseguentemente riteniamo che occorra porre al centro le prescrizioni contenute nel programma di trattamento e, quindi, il controllo delle stesse e non già il “ programma di trattamento ed inclusione sociale”.
L’attività di controllo, inoltre, deve poter essere esercitata verso tutte le misure alternative al carcere - in forma autonoma e senza condizioni di sorta che, inevitabilmente, potrebbero vanificarne l’efficacia (commi 3 e 4 art.2)-. Ovviamente nella sola fase di sperimentazione il controllo potrebbe essere esercitato solo verso alcune misure alternative.
Coerentemente con quanto già asserito si ribadisce che, per questa O.S., la collocazione di tali Nuclei di Controllo possa essere individuata all’interno dei Nuclei T.P. e posti alle dirette dipendenze dei Direttori degli Uffici Sicurezza presso i PRAP e, quindi, del Provveditore Regionale.
Fermo restando successivi accordi, in materia di selezione del personale, si ribadisce l’opportunità di specificare nel decreto che il personale già in servizio presso gli UEPE abbia diritto a concorrere per l’impiego presso i Nuclei di Controllo.
Per quanto attiene al percorso formativo, pur ribadendo la valenza della formazione stessa, si ritiene che l’accesso ai Nuclei debba avvenire esclusivamente attraverso le risultanze delle graduatorie, redatte in base a criteri condivisi e in linea con quanto previsto dal vigente ANQ, senza che il corso di aggiornamento preveda esami finali e , per di più, attraverso il ricorso
a colloqui selettivi.
D’altro canto l’istituzione di Commissioni aggrava i costi complessivi rinnegando l’orientamento di codesta Amministrazione in tema di razionalizzazione delle spese, come ben sanno gli operatori della polizia penitenziaria e del Comparto Ministeri.
Ben altre, diverse, dovrebbero essere le Commissioni da prevedersi. Di particolare utilità potrebbe rivelarsi l’istituzione di una Commissione preposta all’accertamento del grado di conoscenza di molti Dirigenti Penitenziari in materia di relazioni sindacali e diritti del personale posto alle loro dipendenze, con relativi percorsi formativi e/o di aggiornamento.
Appare opportuno ribadire che l’attività di controllo dei soggetti ammessi a misure alternative rientra nei compiti di attività di polizia che, si presume, il personale della p.p. abbia già nel suo bagaglio professionale perché, si immagina, già formato dalle varie articolazioni di codesta Amministrazione, che non lesina spese in materia di aggiornamento.
D’altro canto non risulta a questa O.S. che gli altri Corpi di Polizia per attendere a tali controlli abbiano predisposto percorsi formativi specifici ….
Dover prendere atto, allora, di reiterate proposte che finiscono per comprimere il ruolo e la professionalità dei poliziotti penitenziari, senza tener conto delle posizioni espresse dalla maggior parte delle OO.SS., ingenera, in questa O.S., dubbi sulla reale volontà da parte di codesto Dipartimento di voler determinare organi di controllo efficienti ed efficaci in grado di rispondere alla domanda di maggior sicurezza dei cittadini che, ci sembrava di aver colto, fosse l’orientamento alla base della proposta stessa formulata dal Ministro della Giustizia.
Per quanto sopra nel riaffermare l’assoluta incondivisione della proposta formulata si resta in attesa di una ulteriore convocazione delle OO.SS. per il prosieguo del confronto.
In attesa di cortese, urgente, riscontro,
Distinti saluti.
mercoledì 28 novembre 2007
SPAZIO: PENSIERI LIBERI
Esprimiamo solidarietà all'educatrice del carcere di Volterra brutalmente aggredita e purtroppo non tutelata dalla stessa Amministrazione.
Chi vorrà, potrà inviare a comunicati.assistentisociali@yahoo.it dei pensieri di solidarietà che saranno pubblicati sul blog.
Il Comitato di solidarità
FP CGIL NAZIONALE
C O M U N I C A T O S T A M P ALa CONSAL UNSA esprime solidarietà alla collega Educatrice della Casa di Reclusione di Volterra che nell’espletamento del mandato istituzionale ha riportato gravi lesioni personali a seguito di aggressione da parte di un detenuto.Questa O.S. denuncia la mancata attenzione verso il personale “civile” penitenziario, al quale è disconosciuta la particolare natura delle funzioni e l’atipicità del lavoro istituzionale svolto, nonostante l’evidente gravosità e rischiosità che caratterizzano l’ambiente detentivo.
RdB PENITENZIARI
Per chi non lo sapesse ( sono in molti, dal momento che la tendenza è quella di coprire le responsabilità che a prima vista sono in capo ad una serie di soggetti) l’Educatore di Volterra è stata violentemente percossa da un detenuto, alla fine di un colloquio. Quest’ultimo aveva con sé una padella, e, dopo averla rotta in testa alla collega, ha continuato l’operazione con i pugni. Risultato: 30 giorni di prognosi diagnosticati al Pronto Soccorso per rottura del setto nasale, possibile distacco della retina e conseguenti disturbi visivi. Fatalità così come nessuno aveva visto il detenuto andare a colloquio con una padella, nessuno ha sentito gli strilli della collega aggredita. Tutto questo avveniva in un carcere.
Sempre per onore di verità il detenuto aveva dichiarato un divieto d’incontro con l’educatrice, E TUTTI NE ERANO A CONOSCENZA. Se questo fosse accaduto ad un poliziotto penitenziario, sarebbero già partite le interrogazioni parlamentari, ma si tratta di un Educatore e si dirà che se l’è cercata, perché non ha fatto come molti di abdicare al proprio ruolo, non si è fatta condizionare, ha cercato di avere la sua autonomia, e la risposta è stata quella tipica della peggior galera: è stata massacrata di botte…. Ma Volterra non era un esempio di trattamento avanzato? Un tempo ironicamente si parlava di trattamento, facendo gesti di menar le mani. In questo senso quella Casa di reclusione può essere di esempio agli altri.
I teatri e le cene galeotte dovrebbero servire per far crescere i detenuti, non dovrebbero essere un inutile palcoscenico per chi li organizza. Evidentemente tali attività non hanno cambiato nulla della cultura della galera. Sono quindi inutili
Sappiamo che è in corso un’ispezione, che il detenuto è stato incriminato per tentato omicidio…..ma questo non può essere di consolazione ad una collega massacrata, né a tutti quelli che lavorano onestamente. Sono mesi che richiediamo per il lavoro in carcere il riconoscimento di lavoro usurante, questa non ne è una dimostrazione, o dobbiamo aspettare che qualcuno muoia per riconoscerlo?
Non solo, c’è un bel parlare di Polizia Penitenziaria negli UEPE…. Ma se non sono in grado di proteggere un operatore nell’ambito della struttura ristretta, dove le regole sono tassative e definite… Non dimentichiamo che nessuno si è accorto che il detenuto aveva con sé una padella – oggetto peraltro difficile da occultare – né che la Bevilacqua strillava….. Perché non insegniamo alla Polizia Penitenziaria a fare il proprio mestiere prima di permettere invasioni di campo , peraltro non del tutto né legittime, né corrette.
Questa organizzazione Sindacale dichiara lo stato di agitazione degli Educatori e indice una settimana di protesta, a partire dal 3 dicembre, astenendosi dai colloqui con i detenuti.
Ci aspettiamo quanto prima un segnale concreto di riconoscimento per questo lavoro da parte dell’Amministrazione
IL COORDINAMENTO RdB PENITENZIARI
Roma, 28 novembre 2007
FP CGIL
O.S. SUNAS
lunedì 26 novembre 2007
COMUNICATO CONFSAL-UNSA
Nelle assemblee tenute negli UEPE nelle scorse settimane, di cui sono testimoni i numerosi colleghi intervenuti, avevamo facilmente previsto ciò che venerdì 23 novembre si è puntualmente materializzato.
Che tempistica! Ad urne ancora “calde”, durante la conta dei voti delle RSU, la tregua è scaduta: ora che la posta in gioco è al riparo dalle “turbative elettorali” , si gioca a carte scoperte.
Il D.A.P. ha inoltrato l’ennesimo D.M. sull’impiego negli UEPE della Polizia Penitenziaria.
Il peggio è arrivato? purtroppo no.
I tempi di azione sono sicuramente inappropriati e dimostrano che il freno (temporale) finora malcelato era, soprattutto, mal sopportato ed il risultato di strategie politiche.
Si rileva la perentoria modalità di condurre le relazioni sindacali che si evince nel diktat finale imposto dall’Amministrazione che conclude la nota di trasmissione con: “tanto premesso, in assenza di osservazioni, da far pervenire entro 7 giorni dalla ricezione presente, si darà avvio al perfezionamento del decreto”.
Ricordiamo che l’ultimo incontro si era concluso con le parole del Presidente E. Ferrara, che riassumendo le posizioni dei vari sindacati, etichettava gli schieramenti in Organizzazioni sicuramente a favore, contrarie e alcune indecise. Ed aveva aggiunto che senza un ampio consenso avrebbe potuto accantonare il progetto ma tale conseguenza non avrebbe consentito la richiesta di organico di altro personale di Polizia Penitenziaria. Ci viene da pensare che gli indecisi o non erano tali o hanno dato il loro consenso in sede non ufficiali, tant’è.
La CONFSAL UNSA, sindacato coerentemente autonomo, ribadisce la propria contrarietà ad un progetto non utile per motivi del tutto evidenti:
· impropria spesa di risorse a favore di “un’esigenza di controllo” (oggi svolto da altre forze di polizie) rispetto ad un servizio, l’ Ufficio di Servizio Sociale, da anni depauperato di risorse e personale;
· il cedimento ideologico e storico (la legge Gozzini è un esempio ancora oggi per altri paesi europei) dell’Amministrazione verso l’aumento di controllo, esigenza che viene scollegata dalla funzione trattamentale proprio da un dipartimento che ha tecnici di valore che possono rimodulare e novellare in senso ampio, e sullo sfondo di un progetto di rinnovo,l’intervento rieducativo-risocializzante perno dell’esecuzione penale;
· l’inopportuno investimento su un progetto che non appare prioritario in quanto ad oggi l’apporto, che dovrebbe essere svolto dalla Polizia Penitenziaria, è già espletato da forze di polizia locali che conoscono e agiscono sul territorio con una profonda conoscenza dei fenomeni e delle dinamiche locali;
· storno di personale di polizia dall’interno delle carceri, ove l’aumento di ristretti a breve raggiungerà il numero pre-indulto, per un loro improprio inserimento negli UEPE senza un’obiettiva necessità;
· aumento delle dinamiche di contrapposizioni tra personale civile e personale di polizia penitenziaria (non sarà sufficiente l’inserimento di un esperto, peraltro non definito, ex articolo 80 della legge 354/1975;
· dubbia legittimità dello strumento adottato, il DM, rispetto alla normativa vigente di rango superiore.
Ci fermiamo solo per brevità di esposizione. La CONFSAL UNSA ritiene che le ipotesi di partenza del progetto appaiono deboli ed infondate, tale variabile inesorabilmente dovrebbe far recedere dal porre in essere il progetto conseguente. Il ‘buon senso’ non sembra tuttavia prevalere ma le verifiche, se obiettive, non potranno che pesare come un macigno in termini di responsabilità. La recidiva e l’aumentata sicurezza non ci sembrano si possano ridurre con un siffatto impianto. Non si può imporre una ‘riforma forzata e di parte’ a tutto il personale senza aver neppure il consenso della maggioranza delle OO.SS. che rappresentano il personale civile: si lasciano scorie sul terreno prime di incominciare qualsiasi processo costruttivo.
Sul merito del DM, ove siamo invitati ad esprimerci, rileviamo che abbiamo sollevato diverse eccezioni che non sono state recepite, infatti:
· ritroviamo il nucleo negli UEPE e non nei provveditorati;
· all’articolo 1 del DM vengono estese le competenze della polizia penitenziaria in merito a tutte le misure alternative in virtù della legge 395/90 articolo 5, ma da un’attenta rilettura dell’articolo in parola non si ravvisa esplicitamente tale previsione;
· al punto 2, quindi soltanto nella fase di sperimentazione il nucleo ha competenza solo sulla detenzione domiciliare;
· al punto 3 il DM detta addirittura le condizioni in merito alle prerogative del tribunale di Sorveglianza (definite per legge) il quale “può, inoltre, disporre che le attività di verifica indicate al punto 2, sia svolta nei confronti di persone affidate in prova al servizio sociale. Non ci troviamo di fronte ad un ulteriore conflitto di fonti normative;
· all’articolo 1 vengono richiamate le funzioni in termini di esecuzione penale esterna della polizia penitenziaria;
· La premesse ed i compiti del Magistrato di Sorveglianza appaiono delimitate da coloro che ad oggi adempiono all’esecuzione penale, invertendo la prassi ma soprattutto la ratio della norma generale.
Per quanto sopra la CONFSAL-UNSA ha chiesto al DAP la convocazione delle OO.SS. per sanare un operato improprio e inopportuno e per rivedere nella portata complessiva, se non accantonare, un progetto allo stato inefficace ed inutile. Infine, fatto non secondario, l’impianto parziale dell’intervento circoscritto su alcuni sedi pone una discrasia evidente: una disparità di trattamento verso le persone che sono nelle medesime condizioni. Infatti le persone che sono soggette alle misure alternative alla detenzione nelle sedi del progetto saranno oggetto di controlli diversi e maggiori rispetto all’utenza di altri luoghi: non viene vanificato il dettame centrale del nostro sistema giuridico, e non solo, che “la legge è uguale per tutti?
In assenza di un positivo riscontro e, soprattutto, di una maggiore sensibilità dell’Amministrazione verso l’area penale esterna, la CONFSAL UNSA preannuncia l’indizione di un prossimo stato di agitazione di tutto il personale.
Roma,26 novembre 2007
Il Segretario Nazionale
LETTERA CONFSAL-UNSA AL CAPO DEL DAP
Al Capo del Dipartimento
Amministrazione Penitenziaria
Pres. Ettore Ferrara
e per conoscenza
All’Ufficio Relazioni Sindacali
Bozza di decreto sulla sperimentazione di nuclei di verifica della polizia penitenziaria negli UEPE
In merito alla bozza di decreto trasmessa venerdì 23 u.s, mentre le OO.SS. del comparto ministeri erano impegnate nella rilevazione dei risultati elettorali, la scrivente non può che rilevare la perentoria modalità di conduzione delle relazioni sindacali che si evince nel diktat finale imposto dall’Amministrazione che conclude la nota di trasmissione con: “tanto premesso, in assenza di osservazioni, da far pervenire entro 7 giorni dalla ricezione presente, si darà avvio al perfezionamento del decreto”.
E’ opportuno rammentare che l’ultimo incontro si era concluso con Sue attente riflessioni, che riassumevano le posizioni dei vari sindacati, etichettando gli schieramenti in Organizzazioni sicuramente a favore, contrarie e alcune indecise. Ed aveva aggiunto che senza un ampio consenso avrebbe potuto accantonare il progetto ma tale conseguenza non avrebbe consentito la richiesta di organico di altro personale di Polizia Penitenziaria.
La CONFSAL UNSA, sindacato coerentemente autonomo, ribadisce la propria contrarietà ad un progetto non utile per motivi del tutto evidenti:
· impropria spesa di risorse a favore di “un’esigenza di controllo” (oggi svolto da altre forze di polizie) rispetto ad un servizio, l’ Ufficio di Servizio Sociale, da anni depauperato di risorse e personale;
· il cedimento ideologico e storico (la legge Gozzini è un esempio ancora oggi per altri paesi europei) dell’Amministrazione verso l’aumento di controllo, esigenza che viene scollegata dalla funzione trattamentale proprio da un dipartimento che ha tecnici di valore che possono rimodulare e novellare in senso ampio, e sullo sfondo di un progetto di rinnovo, l’intervento rieducativo-risocializzante perno dell’esecuzione penale;
· l’inopportuno investimento su un progetto che non appare prioritario in quanto ad oggi l’apporto, che dovrebbe essere svolto dalla Polizia Penitenziaria, è già espletato da forze di polizia locali che conoscono e agiscono sul territorio con una profonda conoscenza dei fenomeni e delle dinamiche locali;
· storno di personale di polizia dall’interno delle carceri, ove l’aumento di ristretti a breve raggiungerà il numero pre-indulto, per un loro improprio inserimento negli UEPE senza un’obiettiva necessità;
· aumento delle dinamiche di contrapposizioni tra personale civile e personale di polizia penitenziaria (non sarà sufficiente l’inserimento di un esperto, peraltro non definito, ex articolo 80 della legge 354/1975);
· dubbia legittimità dello strumento adottato, il DM, rispetto alla normativa vigente di rango superiore.
Ci fermiamo solo per brevità di esposizione. La CONFSAL UNSA ritiene che le ipotesi di partenza del progetto appaiono deboli ed infondate, tale variabile inesorabilmente dovrebbe far recedere dal porre in essere il progetto conseguente.
Non si può imporre una ‘riforma forzata e di parte’ a tutto il personale senza aver neppure il consenso della maggioranza delle OO.SS. che rappresentano il personale civile: si lasciano scorie sul terreno prime di incominciare qualsiasi processo costruttivo.
Premesso quanto sopra la Confsal-Unsa chiede una apposita e tempestiva convocazione delle OO.SS., riservandosi in quella sede di esplicitare e di presentare le proprie osservazioni per iscritto.
Certi dell’attenzione che la S.V. porrà in merito a quanto rappresentato, si porgono distinti saluti.
Il Segretario Nazionale
COMUNICATO CASG
I Vertici dell'Amministrazione Penitenziaria inviano il nuovo decreto interministeriale alle OO.SS., sostanzialmente identico al precedente, ma ritengono non opportuno incontrarli per proseguire il confronto
In merito alla nuova bozza di decreto interministeriale che prevede i nuclei di Polizia penitenziaria all’interno degli Uepe, come Coordinamento Assistenti Sociali della giustizia si rileva la volontà del Ministero della Giustizia di proseguire comunque in una sperimentazione che ha suscitato dubbi e perplessità a più livelli e che a nostro parere non potrà che avere effetti disastrosi su un servizio che, già oggi fatica a trovare una propria stabilità.
Siamo convinti che tale sperimentazione non servirà neanche a risolvere alcuno dei problemi che si pensa di affrontare con essa, perchè le questioni sono altre.
Potremmo anche provare a sperimentare, perchè non ci fa paura il nuovo, se non fossimo sicuri che, una volta avviata questa scelta, non si torna più indietro.
Nessuno ha provato a rispondere seriamente alle numerose domande che in questi mesi abbiamo più volte e in più occasioni sottoposto ai vertici del DAP, domande che esulano dalla specificità professionale, che ci rendiamo conto può interessare a pochi, ma riguardano l’intero sistema dell’esecuzione delle pene.
Qui proviamo a riformularle nella speranza che qualcuno cominci a riflettere, perchè haimè abbiamo la sensazione che si voglia proseguire a tutti i costi, indipendentemente dal fatto che si raggiungano o meno i risultati che si dice di voler perseguire, solo perchè il Ministro ha preso un impegno, dal quale non vuole e/o non può tornare indietro.
Noi chiediamo:
- come può un progetto tutto interno all’A.P. risolvere la questione del sovraffollamento carcerario che dipende da fattori tutti esterni, quali la legislazione penale, le leggi sull’immigrazione, sulle dipendenze ecc.?
- i Magistrati di Sorveglianza potranno concedere più misure alternative in presenza di una legislazione, come l’attuale, che riduce sensibilmente l’ammissibilità alle stesse?
- lasciare invariata la legge cosiddetta “Cirielli”, che limita sensibilmente l’accesso alle misure alternative dei soggetti recidivi e facendo entrare in vigore l’emanando pacchetto sicurezza si limiterà l’accesso ad un numero sempre più alto di autori di reati di elevato allarme sociale, ciò non significa ridurre drasticamente l’area penale esterna al carcere?
- come potranno essere concesse le Misure Alternative ai soggetti stranieri e italiani senza quei presupposti indispensabili quali: risorse abitative, lavorative e di supporto, che solo un complesso e articolato lavoro sociale può garantire?
- si è proprio sicuri che basterà introdurre la polizia penitenziaria nel controllo delle misure alternative perché queste aumentino?
- come si pensa di far diminuire la popolazione detenuta se più della metà di essa è in custodia cautelare, quindi non può beneficiare di misure alternative?
- se esiste un problema di insicurezza nelle città questo è addebitabile ai soggetti in misura alternativa? e comunque, è realistico pensare che l’inserimento di nuclei di 6/9 unità di polizia penitenziaria in città come Milano, Roma, Napoli possa di fatto aumentare la “sicurezza”?
- come si pensa di affrontare l’inevitabile aumento dei soggetti detenuti in carcere che seguirà alla legislazione vigente e la contemporanea diminuzione degli addetti della polizia penitenziaria operativi negli istituti?
- Con quali risorse finanziarie si pensa di alimentare un apparato di controllo da creare ex novo e che si andrà ad aggiungere a quello già esistente sul territorio?
Noi denunciamo la mancanza di un vero e serio dialogo con gli operatori dei servizi interessati, un esempio molto significativo è stata l’organizzazione del convegno del 15 e 16 novembre, dove la partecipazione degli assistenti sociali è stata prevista solo all’ultimo momento con modalità “pasticciate” e “affrettate” senza la possibilità di un reale dibattito (chi ha potuto portare il proprio contributo lo ha fatto a titolo personale e ad una sala pressochè vuota).
Indicativa l’assenza della maggioranza delle OO.SS. e dell’Ordine degli assistenti Sociali, che avrebbero potuto portare un contributo approfondito e rappresentativo del personale interessato.
Con il presente documento non possiamo far altro che ribadire tutte le preoccupazioni già rappresentate in questi mesi ed entrando in merito al nuovo decreto avanziamo le seguenti osservazioni:
– art. 1 si ribadisce che l’inserimento della polizia penitenziaria si inserisce “in un modello operativo che pone al suo centro il programma di trattamento ed inclusione sociale” in contaddizione con quanto detto nell’art.2 nel quale ci si riferisce esplicitamente a funzioni di polizia
– art. 2 co. 2 ci si chiede perchè si usa l'espressione “...nella prima fase....la polizia penitenziaria svolge... la verifica degli obblighi...... sulle persone in detenziane domiciliare”, sarebbe interessante conoscere cosa è previsto e preventivato nelle possibili future fasi. L’espressione:”in via prioritaria rispetto alle altre forze di polizia...” indica la non possibilità di totale sostituzione delle altre FF.OO. e quindi la possibile sovrapposizione di controlli
– Art. 2 co.3 ci si chiede perchè mai il Tribunale di Sorveglianza debba entrare, a priori, nel merito del programma di trattamento dell’affidato? Questo la legge non lo prevede, mentre l’art.72 prevede espressamente che sia L’UEPE a proporre il programma di trattamento all’autorità giudiziaria e non viceversa
– Art. 3 co. 3 in merito a cosa il responsabile del nucleo è chiamato ad esprimersi? In merito alla conoscenza del caso (?) o in merito ad un'organizzazione logistica?
– Art. 3 co. 4 se i piani generali disposti dal DAP e dal Dipartimento della P.S. confliggono con i programmi di trattamento disposto dal direttore Uepe che ha sentito l’A.S. incaricata, chi decide quali attività integrative effettuare il responsabile del nucleo o il direttore UEPE?
– Art. 3 co. 5 chi riferisce al Magistrato di Sorveglianza nel merito del programma di trattamento e dei controlli? Oggi la legge prevede che sia espressamente l’A.S. a riferire periodicamente al Magistrato (art. 47 O.P. art.94 DPR 309/90); con la sperimentazione sarà il direttore a farsi carico di riferire sia sull’andamento del programma di trattamento sia sull’esito delle verifiche? In caso di contrasto tra le due attività chi decide cosa riferire? Non si può desumere da questo una grave limitazione al mandato istituzionale e professionale dell’A.S.?
– Art. 4 co. 4 come è possibile prevedere nella commissione di scrutinio un'assistente sociale C3 quando si sa che nella gran parte degli UEPE soprattutto nel nord Italia questa figura non è presente? (questa situazione è molto diffusa grazie anche alla scarsa attenzione in questi anni da parte dell’A.P. alla progressione di carriera del personale di servizio sociale);
– Art. 5 co. 2 se i controlli sono previsti essenzialmente per i det. dom. (aff. e S.L. appaiono marginali o comunque a discrezione di ogni Tribunale di Sorveglianza e/o Istituto Penitenziario) per quale ragione i nuclei di polizia penitenziaria devono essere istituiti all'interno degli Uepe? Il controllo dei detenuti domiciliari è da sempre demandato alle forze dell'ordine, mentre agli UEPE sono demandati solo compiti di aiuto, quindi, se il Ministero dell'Interno ritiene di potersi coordinare con la polizia penitenziaria, perché ciò non avviene in un'altra sede dove possa opportunamente collaborare anche in altre attività di ordine pubblico generale? Perchè questi uffici debbono essere incaricati di competenze che non sono previste attualmente da alcuna normativa?
– Art. 6 co. 1 poco chiaro appare l'ultimo capoverso che vede trasformare l'Uepe in un commissariato che governa l'ordine pubblico più che la sicurezza e l'inclusione. Il direttore dell’Ufficio è trasformato in un funzionario di polizia che “....assicura la tempestiva comunicazione alle autorità provinciali di P.S...., partecipando attivamente all’ordine pubblico e alla sicurezza, in contrasto con il proprio mandato professionale in quanto assistente sociale a tutti gli effetti.
Chiaramente queste non sono le sole criticità presenti nella bozza del decreto, ma sono quelle maggiormente percepibili ad una prima analisi, si chiede pertanto alle OO.SS. e all’Ordine Nazionale degli AA.SS. di far pervenire queste e tutte le altre possibili osservazioni al DAP, ponendo con forza la necessità di proseguire nel confronto al fine di non mettere gli assistenti sociali nelle condizioni di opporre formale ricorso amministrativo a tale provvedimento, palesemente e fortemente lesivo della normativa oggi in vigore e dei compiti da questa assegnati all’A.S.
Per il consiglio nazionale casg
Anna Muschitiello (segretaria nazionale)
venerdì 23 novembre 2007
Nuovo Decreto Interministeriale- Comunicato assistenti sociali
Corte Costituzionale
Ordine Nazionale Assistenti Sociali
Ordine Regionale Assistenti Sociali Campania
Coordinamento Assistenti Sociali Giustizia
Blog Solidarietà Assistenti Sociali
Ai Sindacati Confederali e Autonomi
Ai Gruppi Parlamentari
Al Ministro On. Paolo Ferrero Ministero della Solidarietà
All’Avv. Desi BrunoGarante dei diritti delle Persone private della libertà personale
Ristretti Orizzonti
Redattore Sociale
Vita nonprofit
· La verifica di Costituzionalità del contenuto della “Bozza del Decreto sulla sperimentazione di nuclei di verifica della Polizia Penitenziaria negli uffici locali” del Ministro della Giustizia in concerto con il Ministro dell’Interno del 22.11.2007, con riferimento ai Principi Costituzionali e alle Leggi vigenti, in specifico alla Legge 354/75 (Ordinamento Penitenziario).
· l’impegno ai Consigli dell’Ordine Regionale e Nazionale a denunciare eventuali violazioni del Codice Deontologico o azioni che si dimostrassero lesive della Professione di Assistente Sociale, così come già dichiarato dal Consiglio dell’Ordine Regionale del Trentino-Alto Adige.
· La Tutela dei lavoratori Assistenti Sociali e la Rappresentanza di quanto esposto ai Sindacati Confederali e Autonomi.
23 Novembre 2007
Assistenti Sociali
Cataldo Rosanna
Landi CarmelaMerola Giuseppina
Il NUOVO DECRETO DAP
- il riferimento all'ordinamento penitenziario posto in apertura è stato ampliato a tutto il capo VI (oltre che all'art.72), poichè nel decreto si provvede per tutte le misure alternative ivi previste;
- è stato soppresso il riferimento all'art.48 comma 6, del regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario, perchè riguardava al detenuto ammesso al lavoro all'esterno che come risaputo non è misura alternativa , sussiste invece il riferimento all'art.118 reg. esec. che attiene agli ex CSSA;
- è stato inserito l' art.1 relativo alla definizione dei termini usati nel decreto, conseguentemente tutti gli articoli sono stati rinumerati
- è stato esplicitato il concetto di contributo alla sicurezza (anche territoriale), che la sperimentazione vuole offrire;
- è stata semplificata la procedura di selezione del personale;
- con riferimento alle tabelle si comunica che sono stati inseriti, ai fini della sperimentazione, gli uffici di Bologna, Lecce e Brescia in considerazione della tipologia e del numero degli incarichi esistenti; per la medesima ragione, a seguito di riduzioni intervenute, è stata esclusa la previsione dell'Ufficio di Verona.
Tanto premesso, in assenza di osservazioni, da far pervenire comunque entro sette giorni dalla ricezione della presente, si darà avvio al perfezionamento del decreto.
Polizia Penitenziaria negli Uepe: nuova bozza del Decreto Interministeriale (pdf)
giovedì 22 novembre 2007
INTERVENTI CONFERENZA NAZIONALE UEPE ORDINE NAZIONALE ASSISTENTI SOCIALI n.1
di Franca Dente Vicepresidente Consiglio Nazionale Ordine Assistenti Sociali
Oggi con la Conferenza su “Le misure alternative alla detenzione tra proposte di riforma e istanze di sicurezza: Il contributo del Servizio Sociale” il CNOAS ha voluto raccogliere tutti i soggetti che a vario titolo sono coinvolti nella organizzazione e gestione dell'area dell'esecuzione penale esterna, per offrire un'occasione di dibattito su un tema – quello dell'inserimento della Polizia Penitenziaria nel controllo delle persone ammesse alle misure alternative – sul quale, negli ultimi sei mesi, molto si è parlato, scritto e discusso con una polarizzazione su due posizioni, quella dei favorevoli e quella dei contrari che, ci sembra, non riescano a fare passi avanti per superare tale polarizzazione.
Abbiamo, quindi, ritenuto utile rendere possibile un confronto fra tali contrapposti punti di vista, augurandoci che l'iniziativa odierna possa rappresentare l'avvio di un processo di riflessione che includa tutte le voci e che possa concludersi con l'individuazione di alcuni elementi di condivisione, sulla cui base elaborare un progetto comune.
Fra queste diverse voci c'è anche quella dell'Ordine professionale degli assistenti sociali che, se lascia ad altri più autorevoli e competenti esperti i ragionamenti sulla legittimità dell'uso di un decreto ministeriale per modificare disposizioni di legge e sulla legittimazione normativa di un ruolo esterno della polizia penitenziaria, intende analizzare e “monitorare” il processo di cambiamento che si prefigura, per verificarne la ricaduta sull'operatività degli assistenti sociali che in tale processo, da più di trenta anni, rivestono un ruolo centrale.
La principale preoccupazione dell'Ordine, cioè dell'ente cui compete esponenzialmente il compito di tutela della professione, è che i cambiamenti che si ipotizzano possano incidere in senso potenzialmente negativo sul mandato professionale degli assistenti sociali del settore penale.
Certamente per poter valutare tale processo dobbiamo considerare tutti i vari aspetti della complessa questione della gestione delle misure alternative, sia come strumento di inclusione sociale, sia come elemento di ricostruzione del tessuto comunitario, vulnerato dal reato, in un'ottica che sia di rafforzamento della sicurezza dei contesti di vita dei cittadini.
Come molti dei soggetti coinvolti in questo dibattito hanno sostenuto e sostengono anche l’Ordine Nazionale ha maggiormente incentrato la sua attenzione alla misura alternativa dell’Affidamento in prova al Servizio Sociale.
In sintesi le ragioni che sottostanno a tale preoccupazione sono:
§ La ratio che è stata alla base della previsione normativa che ha introdotto l’affidamento, ruotava attorno all'idea che si potesse coniugare un percorso di reintegrazione sociale della persona condannata, alla garanzia di un controllo efficace di tale percorso, mediante un “trattamento” che non fosse meramente custodialistico, ma attuato in un ambito comunitario e svolto secondo la competenza professionale del servizio sociale. In altri termini, il legislatore ha individuato nella professione di assistente sociale l'elemento caratterizzante della misura stessa, che viene applicata sul presupposto che il trattamento relativo sia svolto secondo la competenza e la metodologia di intervento dell’assistente sociale. Partendo dal presupposto che il soggetto affidato abbia un interesse primario ad impegnarsi nella partecipazione al programma stilato al momento della concessione della misura, in funzione della sua risocializzazione, si ritiene che anche il controllo sull’aderenza alle prescrizioni sia in grado di assumere un significato “positivo” all’interno della struttura complessiva dell’affidamento in prova. In quest’ottica, l’approccio professionale dell’assistente sociale viene individuato come lo strumento più adeguato per l’instaurazione di un rapporto in cui il controllo presenta delle caratteristiche di specificità e differenza rispetto alle forme di controllo tipiche del custodialismo, in quanto: si svolge comunque secondo metodi, tecniche e finalità che fanno riferimento ad un rapporto duale operatore-utente, i cui elementi fondanti sono la fiducia e la responsabilità di ciascuno dei soggetti della relazione. In tale ottica il controllo si realizza come verifica non unilaterale, ma relazionale del percorso complessivo del soggetto.
§ I positivi risultati ottenuti dal servizio sociale penitenziario nella gestione della misura dell’affidamento, oltre che su un metodo di intervento centrato sulla responsabilizzazione del condannato e sulla richiesta di una sua partecipazione attiva al programma di trattamento, di cui si controllano le modalità di svolgimento (controllo del processo), si sono basati sin dall’inizio su un tipo di organizzazione e di politica del servizio rispondente al principio, fatto proprio dalla legge di riforma penitenziaria, di “territorializzazione della pena”, cioè l’idea che i comportamenti devianti devono trovare soluzione e prevenzione in quello stesso ambiente in cui si sono manifestati, con la riappropriazione della gestione dei problemi della devianza, anche di quella con rilevanza penale, da parte della comunità. Su questa base, con la scelta di dislocare gli, allora, Centri di Servizio Sociale per Adulti in tutto il territorio nazionale, come unità amministrative autonome e distinte dagli istituti penitenziari, il legislatore volle affermare che queste strutture dovevano porsi in una logica di integrazione con il territorio, per rendere possibile anche l’attuazione del principio di territorializzazione della pena.
Il servizio sociale, ha impostato la propria pratica di intervento sull’attivazione della metodologia del lavoro di rete, sia per gli interventi rivolti al caso singolo, sia con una Politica del Servizio mirante all’inserimento dell’UEPE nel tessuto sociale circostante, mediante la creazione di una rete il più possibile ampia attraverso contatti formali con gli altri servizi e le altre agenzie del territorio (Protocolli d’intesa, Convenzioni, Co-progettazione su tematiche specifiche) e costruire un tessuto sociale accogliente, attrezzato e meglio rispondere agli obiettivi non solo di reinserimento del condannato ma anche di prevenzione primaria.
Allo stato attuale, la realtà organizzativa e le pratiche professionali del servizio sociale della Giustizia, consentono di dire che gli UEPE sono oggi, non solo diffusamente presenti nel territorio, ma operano in stretta collaborazione e coordinamento con gli attori istituzionali e non, e con le altre agenzie che si occupano della sicurezza dei territori di vita dei cittadini. Gli UEPE siedono ai tavoli tecnici che elaborano i Piani di Zona, vengono chiamati a far parte dei tavoli promossi dalle Prefetture per le questioni inerenti la sicurezza, hanno costanti rapporti di collaborazione con le agenzie della società civile (volontariato, cooperazione sociale, privato no profit) il cui impegno nelle politiche sociali e nel penitenziario ha acquisito un peso, anche normativo, centrale.
§ Le ipotesi di inserimento della polizia penitenziaria, sia nella prospettiva di collocazione all'interno degli UEPE, sia nella prefigurazione di un impiego a livello dei PRAP o dei Tribunali di Sorveglianza, potrebbero determinare uno snaturamento della misura dell'affidamento. Tali misure potrebbero subire una radicale trasformazione nel loro nucleo fondante, con una separazione fra le due funzioni quella di sostegno alla persona in esecuzione penale (assistente sociale) e quella di controllo dell’andamento del percorso della misura (polizia penitenziaria), introducendo, in tal modo, potenziali ma, facilmente prefigurabili, aspetti di ulteriore complessità organizzativa e gestionale, ma anche elementi di conflittualità nella gestione della misura stessa fra l'operatore sociale e le sue specifiche modalità di intervento e le funzioni di controllo esercitate, con modalità più fiscali e custodialistiche, dalla polizia penitenziaria. Ciò influirebbe negativamente sia sul piano della qualità, sia su quello dell’efficacia del sistema della gestione dell’affidamento.
I FATTORI DI CRITICITÀ
E’, tuttavia, necessario analizzare anche alcuni dei fattori che hanno determinato una condizione di crisi nel sistema penitenziario e, in particolare, nell’area penale esterna, e che rischiano di vanificare, in buona misura, i risultati conseguiti dal più generale sistema delle misure alternative alla detenzione:
§ La esponenziale crescita numerica e qualitativa delle misure alternative. Oggi siamo di fronte ad una situazione in cui l’universo penitenziario è articolato in due distinti, e quasi equivalenti, quanto a consistenza numerica, settori di esecuzione della pena: il sistema carcere con la pena detentiva e il trattamento intra-murario, e il sistema delle alternative alla detenzione. Ma, a ciò non è corrisposta, né una risistemazione normativa, né soprattutto una più equa distribuzione di risorse finanziarie, strumentali e umane fra i due settori.
§ La sostanziale modifica della natura delle misure alternative, a causa del succedersi, nel corso degli anni, di provvedimenti legislativi che hanno trasformato, in particolare l’affidamento in prova al servizio sociale, in una misura estremamente complessa, di difficile gestione, potendo esservi ammessi soggetti dalla storia delinquenziale anche lunga o condannati per reati la cui “natura” spesso configura situazioni che rendono particolarmente difficile l’intervento professionale dell’assistente sociale (ad esempio i reati dei cosiddetti colletti bianchi, soprattutto quelli di tipo finanziario, quelli connessi alla pedofilia, o anche alla criminalità organizzata di tipo mafioso), o soggetti inseriti in complesse situazioni ambientali, in cui è molto estesa la criminalità organizzata. E’ facilmente intuibile, che si è determinato un aggravamento dei compiti del servizio sociale.
§ Il cambiamento avvenuto nell’opinione pubblica, a causa dell’allarme sociale prodotto dalla microcriminalità, dalla trasformazione delle nostre comunità di vita sempre più multiculturali con la paura dello “straniero”, che fanno aumentare l’insicurezza sociale. Le richieste sembrano sempre più rivolte ad obiettivi di esclusivo contenimento e controllo, da effettuarsi con strumenti idonei, anche ricorrendo a controlli elettronici. Soprattutto nelle grandi città, sempre più sembra farsi strada la cosiddetta “tolleranza zero”.
§ La minore presenza di dirigenti di S.S. anche nel DAP, ufficio di esecuzione penale esterna, che ostacola di fatto la comprensione di tali ragioni.
§ Lo scarso investimento su politiche di prevenzione e di interventi sociale.
UNA VALUTAZIONE SUI RISULTATI
A fronte di queste considerazioni, vanno opportunamente presi in esame i dati sui risultati dell'affidamento, per comprendere se le ipotesi di riforma hanno un fondamento e motivazioni oggettive che rendano necessario il cambiamento organizzativo.
Tre gli aspetti di fondamentale interesse per la valutazione, in termini di efficacia con particolare riguardo anche al rapporto misure/assistenti sociali, della misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale: il numero, le revoche, le recidive.
I risultati sono positivi, sia per quanto attiene la percentuale di revoche ( 6,06% dati rilevati dal sito del Ministero della Giustizia), sia per la recidiva (19% anni successivi 1998 sino a 2005). Tutto questo nonostante la crescita delle misure alternative sia stata costante ed esponenziale: in particolare, dal 1991, anno in cui le misure alternative erano complessivamente inferiori a 5.000, se ne è avuta la decuplicazione, avendo raggiunto quasi quota 50.000 nel 2005 e precisamente:
I dati statistici che ormai tutti conosciamo costituiscano, quindi, una dimostrazione dell’efficacia dell’intervento professionale del Servizio Sociale nell’affidamento in prova al Servizio Sociale e del sostanziale buon funzionamento del sistema penitenziario.
Quindi, la valutazione di tali dati consente di concludere che il sistema di implementazione della misura dell'affidamento, imperniato sulle modalità operative del servizio sociale, ha complessivamente funzionato nel raggiungimento del duplice obiettivo di rafforzare i processi di inclusione e coesione sociale, contribuendo attraverso il rispetto delle prescrizioni anche al rispetto della legalità e favorendo, in tal modo, una maggiore sicurezza dei contesti di vita dei cittadini.
Queste sono state anche le parole del Procuratore Giancarlo Caselli che, intervistato dopo la rapina a Siena dell'ex brigatista Piancone, ha difeso le misure alternative perché funzionano bene recuperando le persone alla convivenza civile, determinando così anche un aumento del livello di sicurezza nel nostro paese.
L'Ordine Nazionale degli Assistenti Sociali ha raccolto il disagio degli operatori degli UEPE, sia in occasione di un incontro nazionale tenutosi a Roma il 2 marzo 2007, sia perché sollecitato dai numerosi documenti, lettere e appelli ad esso pervenuti dalla maggioranza degli UEPE. Anche alcuni dei dirigenti hanno interpellato l'Ordine rispetto alla necessità di farsi portavoce di “tutti” i punti di vista espressi dagli assistenti sociali del settore (va, al riguardo, precisato che tutti i dirigenti degli UEPE sono assistenti sociali).
Il CNOAS, ponendosi l'obiettivo di assolvere il proprio compito di tutela della professione, è intervenuto attivandosi su più fronti, anche al fine di allargare l'area di riflessione: quello politico con un incontro avuto con il Ministro C. Mastella il 28 marzo 2007, quello più propriamente tecnico con l'incontro avuto il 16 maggio scorso con il Capo del DAP, Ettore Ferrara, e con il Direttore generale dell'E.P.E, Riccardo Turrini Vita (che era stato preceduto da un colloquio con il direttore generale del personale e della formazione, M.De Pascalis).
In queste diverse sedi, l'Ordine, facendosi portavoce delle varie istanze provenienti dal servizio sociale della Giustizia, ha ritenuto importante evidenziare alcune valutazioni, sia di metodo, che di merito.
L'Ordine, avendo riscontrato, sia nel Ministro, che nei vertici del DAP, la volontà di proseguire nel progetto di riforma e, pur convenendo su alcune criticità segnalate dai diversi interlocutori a supporto della necessità di rendere il sistema dell'esecuzione penale esterna ancora più efficace, ha ritenuto tuttavia di dover richiedere, in primo luogo, quantomeno il rinvio dell'inizio della sperimentazione, con la contestuale attivazione di una fase di riflessione-confronto con tutti i soggetti coinvolti nell'area penale esterna, per meglio valutare e individuare, in modo condiviso, le reali esigenze di riforma e gli interventi concretamente necessari.
In questo frangente di tempo si sono moltiplicate le dichiarazioni, i comunicati e le critiche contro l’idea di riforma del DAP da parte degli assistenti sociali dei vari UEPE, dei sindacati confederali e autonomi anche della polizia penitenziaria, del mondo del volontariato; si è aperto da tempo un blog su No alla sperimentazione di commissariati territoriali delle Polizia Penitenziaria.
Il DAP dal proprio canto ho rivisto il provvedimento tentando una mediazione senza riuscirvi e i dirigenti degli UEPE si sono progressivamente orientati in senso più positivo rispetto alla riforma.
In questo confronto va anche evidenziato il crescente bisogno di sicurezza della comunità e la peculiarità dei fenomeni che si devono governare.
Il Consiglio Nazionale ha sicuramente un forte attenzione alle prospettive della professione e alla suo mandato sociale e in modo particolare al senso e valore della misura dell’affidamento in prova al Servizio Sociale, perché parte da un costrutto ideologico di ricostruzione dei legami sociali e personali, da una visione etica di un’idea di sicurezza, e non da spinte corporative, ma ha anche la necessità di ascoltare le ragioni delle diverse posizioni e lasciare che interagiscono tra di loro, trovando punti di contatto e di collaborazione.
A questo fine è stata voluta questa giornata e a questo scopo organizzata la tavola rotonda, anche per agevolare un dialogo tra le parti e rispondere ad un giusto bisogno di consultazione manifestato da tempo dalle assistenti sociali.
Inclusione, coesione non sono parole ma concetti, presupposti ideologici e valoriali che sono alla base della professione, sono modus vivendi (professionale), forma mentis che puntano sulla responsabilità e sulle risorse delle persone.
INTERVENTI CONFERENZA NAZIONALE UEPE ORDINE NAZIONALE ASSISTENTI SOCIALI n.2
Prospettive e sviluppo del servizio sociale nelle misure alternative alla detenzione- Tavola rotonda
di Gloria Pieroni Consigliere Nazionale Ordine Assistenti Sociali
L'obiettivo della tavola rotonda è quello di offrire uno spazio di confronto a esperti delle tematiche inerenti l’esecuzione penale esterna e del ruolo svolto, in tale ambito, dal servizio sociale che, pur da posizioni diverse, riconoscendo la reciproca autorevolezza e la legittimità delle rispettive argomentazioni, sono sinceramente interessati a una riflessione costruttiva, nel tentativo di giungere a delle risoluzioni, il più possibile condivise, rispetto alla questione cruciale dell'impiego della polizia penitenziaria nel controllo delle misure alternative e agli scenari che ciò comporterebbe.
Il contributo che ci è sembrato utile apportare a tale riflessione è una sintetica e, certamente non esaustiva, analisi di alcuni aspetti nodali dell'animato dibattito che, attorno a tale questione, si è sviluppato in questi ultimi mesi, individuando i temi su cui si è registrato maggiore dissenso, ma anche quelli su cui le posizioni sembrano maggiormente convergenti.
Punti di divergenza
1. Il progetto di riforma mira a creare un sistema di gestione delle misure alternative che “esporta” il modello repressivo-carcerario sul territorio?
Le motivazioni di chi afferma che c’è tale rischio, sono che si vuole aumentare la presenza di forze di polizia e quindi il controllo sul territorio, e in questo senso, per le misure alternative, si vuole rafforzare l'elemento del controllo fiscale, custodialistico, intervenendo sulla metodologia di intervento propria del servizio sociale nell'ambito delle misure alternative, con una scissione di un processo unitario, in cui il controllo diventa verifica di un percorso progettuale e, come sempre in un progetto, si operano dei controlli periodici per monitorare e valutare l'andamento complessivo della misura. La posizione di chi non ravvisa tale rischio è che con la riforma prevista si vogliono, al contrario, legittimare maggiormente le misure alternative, strutturandole in modo più efficace, al fine di poter fronteggiare la crescente complessità della realtà sociale e dei nuovi fenomeni criminali.
2. Il controllo, così come originariamente previsto dall'ordinamento penitenziario e come delineato dal R.E. del 2000, è oggi efficace alla luce della trasformazione quanti-qualitativa dei condannati e dei fenomeni criminali?
Le motivazioni di chi dice che è ancora efficace si rifanno, in particolare, alle statistiche sulle revoche delle misure alternative e alla ricerca sulla recidiva, i cui dati sono a conferma della maggiore efficacia di tali misure, così come regolamentate e gestite oggi, rispetto all'esecuzione carceraria. A questo si collegano altri due punti di divergenza: Il tema del controllo, anche nell'affidamento, va affrontato in termini nuovi. E' positivo che l'assistente sociale dell'UEPE possa disporre, in certi casi, anche di un controllo della condotta del soggetto ad opera di una figura diversa. Le opposte argomentazioni sono, da un lato, che è improduttivo prevedere la scissione fra le azioni volte al controllo della condotta della persona, da quelle volte a sostenerla nel superamento delle difficoltà incontrate nel percorso di reinserimento; dall'altro che i cambiamenti determinatisi nella realtà sociale richiedono che gli UEPE possano dispiegare, oltre alla funzione rieducativa, anche quelle retributiva e riparativa, richiedendo che, accanto e non invece, all'assistente sociale si possa disporre, all'occorrenza e se la situazione del soggetto lo richiede, anche della possibilità di effettuare il controllo della condotta, con personale a ciò destinato.
3. Il controllo oggi effettuato da Polizia e Carabinieri sulle persone in misura alternativa è diverso e maggiormente contrastante con il progetto di inclusione rispetto a quello che potrebbe essere effettuato dalla Polizia Penitenziaria?
Chi afferma che non lo è, motiva tale posizione sostenendo che, anche con l’inserimento della polizia penitenziaria, non verrebbe meno i controlli della polizia e dei carabinieri perché questi non rinuncerebbero a svolgere azione di prevenzione e controllo sul territorio. Inoltre, si dice che i controlli delle forze dell'Ordine sono effettuati da chi ha conoscenza di tutte le dinamiche più ampie dell’ambito territoriale e, quasi sempre, anche della situazione complessiva del singolo soggetto e del suo contesto familiare, cosa che non potrebbe avvenire con la polizia penitenziaria, in quanto avulsa ed estranea alla conoscenza/gestione complessivo della realtà ambientale. In questo senso, la polizia penitenziaria potrebbe svolgere solo un intervento segmentato e con poco significato sul percorso di vita del soggetto. Le argomentazioni di chi, invece, valuta in modo positivo la sostituzione dei controlli ora effettuati dalla forze dell'ordine con quelli della polizia penitenziaria, sono che questi controlli potrebbero essere meglio inseriti nel progetto di trattamento per il reinserimento dell'individuo. E', infatti, necessario un controllo sulla condotta che sia coerente con la gestione complessiva della misura, di cui sarebbe ancora responsabile l’assistente sociale.
4. Se ci deve essere, la Polizia Penitenziaria deve essere inserita negli UEPE alle dipendenze del dirigente?
Da una parte si sostiene che se verrà stabilito l'utilizzo della polizia penitenziaria nelle misure alternative, è meglio che questa venga collocata fuori dall'UEPE, in modo che sia chiara la diversità dei due ruoli, affinché non ci possa essere commistione con il mandato di un servizio che è “sociale” e applica un approccio e un metodo che è completamente diverso da quello correzionale e repressivo proprio dell'istituzione penitenziaria, un servizio che allarga il proprio ambito di azione alla rete di risorse del territorio e che partecipa alla programmazione della politica sociale locale, come soggetto “esperto” dei fenomeni di devianza penale. Quanti, al contrario, sono favorevoli all'inserimento della polizia penitenziaria negli UEPE, sostengono che soluzioni diverse (commissariati territoriali o alle dipendenze della Magistratura di Sorveglianza) esproprierebbero il servizio sociale dalla gestione piena delle misure, relegandolo ad un semplice ruolo assistenziale e creando due distinte logiche di azione, potenzialmente conflittuali, con effetti negativi sui percorsi di inclusione.
5. E’ necessaria la trasformazione del modello di intervento del servizio sociale del settore penale adulti da monoprofessionale a multiprofessionale?
Le motivazioni di chi sostiene la necessità del mantenimento del modello monoprofessionale, partono dal modello organizzativo che si è prefigurato sin dall'inizio per i CSSA: questi non dovevano essere dei servizi “autarchici”, cioè intervenire da soli e in toto per il soggetto in misura alternativa, senza necessità di collegarsi alla realtà territoriale, ma dovevano assumere un ruolo di collegamento, di catalizzatore di una rete attorno alla persona in misura alternativa, rete che fosse territoriale e, quindi, costituita in primo luogo, oltre che dalla famiglia, dai servizi locali e da tutti i soggetti attivi in ambito sociale, in osservanza al principio di territorializzazione della pena e di riappropriazione, da parte della comunità, dei problemi di devianza, anche penale. Il timore è che, inserendo altre figure professionali, si arrivi inevitabilmente a dei servizi del tutto autoreferenziali, che potranno operare autonomamente, soltanto con gli operatori interni, con un ribaltamento del ruolo storicamente loro attribuito dal legislatore del '75, che ha portato tali servizi a inserirsi fra le agenzie del territorio. Ciò determinerebbe, a livello più generale, un'inversione di tendenza rispetto all'acquisizione del principio che identifica la politica criminale come momento di una più vasta politica sociale programmata, supportato dalla convinzione che i fenomeni criminali si combattono, più efficacemente, con le politiche sociali che non con politiche penali repressive. Quanti, invece, sostengono l'utilità di adottare un modello basato sulla multiprofessionalità, argomentano tale loro posizione con la necessità che l'assistente sociale, per arricchire l'offerta trattamentale dei servizi, debba essere affiancata da altre figure professionali, con il passaggio alla metodologia del lavoro di gruppo, perché la complessità delle situazioni individuali e dei contesti di vita delle persone, si può meglio affrontare con un intervento che sia basato sull'integrazione multiprofessionale.
Punti di convergenza
1. Il settore dell'esecuzione penale esterna (EPE) ha oggi assunto, in termini non solo quantitativi (di condannati seguiti), pari importanza con quello carcerario e, in prospettiva, tenderà a un ulteriore ampliamento.
2. L'area EPE, per tale sua rilevanza, deve finalmente ricevere primaria attenzione da parte di chi elabora le politiche della pena in modo da assicurare lo sviluppo sia delle misure che dei servizi che le gestiscono.
3. Invece, gli UEPE (e prima i CSSA) sono stati colpevolmente trascurati (ad essi viene destinato solo il 2% delle risorse finanziarie) e hanno dovuto operare in condizioni di grave insufficienza di mezzi e di personale e coloro che vi lavorano, in particolare gli assistenti sociali, hanno dovuto e devono ogni giorno misurarsi con difficoltà enormi e non minimamente considerate.
4. Non è più rinviabile un serio e consistente programma di sviluppo dei servizi UEPE.
5. Lo sviluppo concreto e reso possibile da adeguate risorse, dovrebbe essere una logica conseguenza di una coerenza fra ciò che si dice di voler fare nell'ambito delle misure alternative (ampliamento previsto dalla riforma Pisapia sul codice penale e dal progetto di riforma che prevederebbe la “messa alla prova” oggi prevista per i minori, anche per gli adulti) e la dotazione di risorse e strumenti per poter realmente fare.
FUORILUOGO
Da Fuoriluogo, di Sandro Margara -
L’ANDAMENTO DELLE MISURE ALTERNATIVE AL CARCERE NELLA RELAZIONE AL PARLAMENTO SULLE DIPENDENZE
Nella Relazione al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze per il 2006, il ministro per la Solidarietà sociale indica, fra gli altri impegni, «il potenziamento dei percorsi giudiziari e penali, consentendo un più efficace utilizzo delle misure alternative alla detenzione al fine di facilitare i percorsi di cura e di riabilitazione». Diciamo pure che questo è un proposito sempre dichiarato e sempre inattuato. In linea di massima, la legislazione è stata sempre molto larga nel consentire le misure alternative come strumento “ordinario” per l’esecuzione della custodia cautelare e della pena, ma in carcere sono rimasti sempre numeri ragguardevoli di tossicodipendenti. Al solito, il problema attuale è innanzitutto quello di liberarci dalla Fini-Giovanardi. La quale ha indicato come sua la scelta delle misure alternative e a riprova porta l’aumento a sei anni della pena detentiva ammissibile all’affidamento in prova in casi particolari. Premesso che questo limite è diminuito a quattro anni, come era prima, per coloro che abbiano fra le pene in concorso anche una sola inflitta per un delitto di cui all’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario (che vieta la concessione di benefici per reati di pericolosità sociale), si deve rilevare che lo sbandierato allargamento è fittizio: operazione di propaganda. A dimostrazione di questo vediamo i meccanismi reali della legge. In primo luogo l’abnorme appesantimento delle pene porterà, in generale, una crescita delle stesse tale da rendere modesto anche l’allargamento del limite di ammissibilità a sei anni. Ma sono i percorsi di ammissione e poi quelli di esecuzione per le misure alternative che rivelano l’aumento delle difficoltà per le alternative al carcere. Intanto, c’è una generale difficoltà di certificazione della tossicodipendenza e della idoneità del programma terapeutico: prevalgono i criteri di laboratorio (dipendenza fisica) su quelli di valutazione pluriprofessionale (che vanno oltre la dipendenza fisica, come necessario). E c’è poi un controllo sulla esecuzione, attraverso gli obblighi di segnalazione degli inconvenienti nello svolgimento del programma, che sposta sempre più la valutazione della rilevanza degli stessi sull’organo giudiziario, anziché su quello di gestione del programma (programma che è inevitabilmente segnato da momenti di difficoltà). Ancora sulla ammissione alle misure alternative in esecuzione pena: nel sistema precedente, il controllo del Pm sulle istanze e la conseguente sospensione della esecuzione (salvo le eventuali forzature di ruolo da parte di questo organo), erano di sola legittimità; ora, attraverso il nuovo testo della norma, la possibilità di un accertamento nel merito sono aumentate e, inoltre, nel caso di istanza avanzata dal carcere, la competenza passa al magistrato di sorveglianza con una verifica, per vari e rilevanti aspetti, proprio di merito (come il riferimento «al grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione» o come la necessità di escludere «il pericolo di fuga»). La conclusione è chiara: l’ammissione alle misure alternative per esecuzione della pena non è affatto più facile (era, almeno teoricamente, automatica, in precedenza), ma assai più difficile, legata alla discrezionalità del giudice che, di questi tempi, non promette nulla di buono, con l’aria securitaria che tira. E va aggiunto che, nel precedente sistema, la custodia cautelare in carcere doveva essere esclusa, salvo alcuni limiti, quando si prospettava la esecuzione di un programma terapeutico: ora, comunque, al carcere sono necessariamente sostituiti gli arresti domiciliari, in alcuni casi in comunità residenziale: il che significa, non accettando, la gran parte delle comunità, persone agli arresti domiciliari, che tali persone resteranno in carcere.Altro è l’impegno del progetto Boato (di cui si avvia la discussione alla Commissione giustizia della Camera). Le pene sono generalmente ridotte e in particolare per i tossicodipendenti. Sono inserite nuove misure (esclusione della condanna per irrilevanza del fatto; messa alla prova durante il processo, il cui esito positivo estingue il reato) e per l’affidamento in prova per lo svolgimento di un programma terapeutico sono tolti i limiti massimi di ammissibilità, per cui la misura vale per tutte le pene da eseguire, ma la ammissione deve essere inizialmente in comunità residenziale. Il progetto riprendeva, si noti, le proposte della Commissione La Greca presso il ministero della Giustizia, istituita per la redazione di un disegno di legge che traducesse le conclusioni della Conferenza nazionale per le tossicodipendenze di Napoli del 1997. Certo, chi voleva migliorare la legislazione sugli stupefacenti non è stato molto veloce. Chi voleva peggiorarla è stato, invece, fulmineo. E ora la Fini-Giovanardi continua ad essere legge.Questo non toglie che, tra gli argomenti della prossima Conferenza nazionale, il tema delle alternative alla detenzione vada affrontato in modo concreto: devono essere diminuiti i tossici in carcere: va definito un progetto perché questo avvenga.E qui viene subito fuori una difficoltà: quella della insufficienza della rilevazione del funzionamento
– o disfunzionamento – del sistema. Le statistiche su cui si basa la relazione (nel testo e negli allegati) non mi persuadono affatto: anzi, più esattamente, sono sbagliate. Le misure alternative, compresa la semiliberta, che è la minore, erano 49.500 al 31/12/2005 (dati Dap). Per il 2003, i soli affidati risultavano essere 30.417(sempre fonti Dap), di cui 23.584 per affidamenti ordinari e 6.833 per affidamenti ex art. 94. Nella tabella a pag. 178 della Relazione, gli affidati nel 2003 risultavano essere 16.000 circa. Cosa è successo, si tratta di numeri in libertà? Nella stessa tabella della Relazione, nel 2005, gli affidamenti erano ancora circa 16.000 (32.000 in base ai dati Dap) e a fine 2006, con effetto indulto, erano diventati 4.290, se si segue la tavola 3/04bis degli allegati o 11.653, se si segue la Relazione a pag. 178 e la relativa tabella.L’attendibilità dei dati è scoraggiante. Se, comunque, ci si vuole guardare dentro, lo scoramento cresce. È possibile che, in Lombardia siano stati concessi 3080 affidamenti – ordinari e in casi particolari – e, nel Lazio solo 232? Concludo, per sapere cosa fare bisogna partire da una conoscenza precisa di cosa è stato fatto.