venerdì 15 gennaio 2010
EMERGENZA CARCERI
http://ilgiornalieri.blogspot.com
di Luigi Morsello
Insomma, il modello è quello della Protezione civile, tant’è vero che, come afferma Franco Ionta, capo del DAP e Commissario Delegato con poteri straordinari, lo stesso si servirà della Protezione Civile Servizi S.p.A., "un'azienda italiana che si occupa della riorganizzazione delle strutture funzionali del Dipartimento della Protezione Civile Italiana, nata il 17 dicembre 2009 con 1 milione di euro di capitale sociale su richiesta del Capo della Protezione Civile Nazionale Guido Bertolaso con l'approvazione nel Consiglio dei Ministri dell'Articolo 19 del Decreto Legge Norme urgenti per la cessazione dello stato di emergenza in materia di rifiuti nella Regione Campania, per l’avvio della fase post emergenziale nel territorio della Regione Abruzzo ed altre disposizioni urgenti relative alla Presidenza del Consiglio dei ministri ed alla protezione civile, al fine di garantire economicità e tempestività per lo svolgimento delle funzioni strumentali e degli interventi del Dipartimento Nazionale della Protezione Civile. In particolare la società gestirà la flotta aerea e le risorse tecnologiche, gli appalti per lavori, servizi e forniture, comprese la progettazione, la scelta del contraente e la direzione dei lavori e di conseguenza la vigilanza degli interventi strutturali ed infrastrutturali, inclusi quelli concernenti le situazioni di emergenza socio-economico-ambientale.
Il controllo sull'azienda è direttamente esercitato dalla Presidenza del Consiglio-Dipartimento della Protezione Civile, che non potrà mai cederne le azioni o costituire su di esse diritti a favore di terzi: la società può assumere invece partecipazioni finanziarie e possedere immobili."(Wikipedia)
Allora, in quest’anno saranno costruiti n. 47 nuovi padiglioni, interni alle carceri esistenti. Se si segue il modello delle nuove carceri, ogni padiglione si dovrebbe comporre di 25 celle a due posti a sinistra ed altrettante a destra di un corridoio centrale. In totale 50 celle biposto per un totale di 100 unità, che moltiplicato per 47 fa 4.700 posti.
Prima di capire quanto potranno costare, bisogna indicare la somma di cui dispone il DAP: 80 milioni di euro + 20 della cassa delle Ammende.
Questa dovrebbe essere la somma disponibile per i 47 padiglioni, il che comporta che ogni padiglione verrebbe a costare 212.127,65 euro (in lire 410.736.404,87). Un lavoro simile lo feci fare a Pavia e venne a costare 200 milioni di lire, ma sono passati 14 anni.
Restano i 18 nuovi istituti “modello L’Aquila”, la cui costruzione inizierà non prima del 2011, spesa prevista 500 milioni di euro, il che fa per ogni istituto 27.777.770 milioni di euro.
Cosa si vuol fare con 30 milioni di euro, carceri nuove? Con quale grado di efficienza, sicurezza, funzionalità se per costruire carceri modello Pavia, Cremona, Vigevano, Como per es. il costo finale è stata superiore ai 50 milioni di euro!
Saranno carceri di marzapane. Inoltre, è tutto da verificare se in quanto tempo il programma verrà portato a compimento e se occorrerà, come occorrerà, stanziare altri fondi.
Più verosimile, stando alle parole di Ionta, il ricorso ad istituti giuridici in grado abbattere sensibilmente il sovraffollamento mediante la concessione "ex-lege" della detenzione domiciliare ai detenuti con un anno o meno di pena detentiva da scontare con la sola esclusione di chi ha commesso i reati più gravi prevista dall'art. 4 bis della legge penitrenziaria (terrorismo, mafia, narcotraffico, spaccio di sostanze stupefacenti), mentre Alfano ha accennato alla creazione di un nuovo istituto giuridico, che ha così definito: “la messa alla prova delle persone imputabili per reati fino a tre anni, che potranno così svolgere lavori di pubblica utilità con conseguente sospensione del processo.”
Geniale! Sperando i muri delle nuove carceri non vengano fatte in cartongesso.
Pd: dov’è il "piano"? Alfano risponda in Parlamento
www.ristretti.it
"Il ministro Alfano venga in Parlamento a spiegare cosa sia contenuto veramente nel cosiddetto piano carceri che al momento nessuno ha potuto vagliare mentre si sollevano inquietanti ombre sui metodi di assegnazione degli appalti utilizzando la legge di secretazione".
A chiederlo con un’interrogazione urgente al ministro della Giustizia sono i vicepresidenti del gruppo Pd del Senato Felice Casson e Luigi Zanda nella quale sottolineano che il provvedimento sottoposto all’esame del Consiglio dei Ministri "appare del tutto inadeguato allo scopo, non potendosi certo risolvere in termini di edilizia penitenziaria un problema che investe in primo luogo l’attuazione del principio rieducativo della pena, le modalità di esecuzione della condanna, la funzionalità dei programmi trattamentali, l’effettiva applicazione delle misure alternative, la predisposizione di programmi di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti".
"A parte le notizie di stampa - spiegano - di questo piano carceri non si hanno notizie utili a far sapere e capire al Parlamento e al Paese se la grave situazione carceraria italiana sia realmente e concretamente affrontata con mezzi e interventi adeguati allo scopo. Ma cosa più inquietante è che viene paventato il rischio che, approfittando di questa situazione carceraria, il piano carceri preveda la possibilità di assegnare appalti e in particolare di costruire nuovi stabilimenti carcerari utilizzando legge di decretazione".
"È evidente - proseguono Zanda e Casson - che ciò comporterebbe la non trasparenza di procedure e dei comportamenti dei pubblici amministratori, con estensione inaccettabile e quasi eversiva delle norme vigenti in materia, così determinando la possibilità di turbative delle regole del mercato, nonché di produrre fenomeni corruttivi, soprattutto se si riterrà di dilatare in maniera irragionevole il regime della normativa in materia di protezione civile".
"La situazione drammatica delle carceri italiane - aggiungono - dove è presente un sovraffollamento non tollerabile, il numero dei suicidi e delle morti ha raggiunto livelli più che preoccupanti e persiste una costante violazione della dignità dei detenuti, impone al ministro di chiarire al Parlamento al più presto i contenuti reali del suo piano carceri"
mercoledì 13 gennaio 2010
ECCO IL PIANO CARCERI "OTTANTAMILA POSTI
Resta più che negativo il giudizio dell'Associazione nazionale magistrati sul processo breve. Quel provvedimento «rischia di mettere in ginocchio la già disastrata macchina giudiziaria» ha detto il presidente Luca Palamara nel corso di un'intervista a Sky Tg 24. E non solo: «non dà giustizia alle vittime dei reati e garantisce l'impunità a chi ha commesso fatti delittuosi». E questo perchè «per come è combinata la macchina giudiziaria non potremo mai definire i processi nei tempi indicati dal legislatore». «Noi per primi - ha aggiunto Palamara - vogliamo una riforma seria della giustizia che, come ha detto il capo dello Stato, tenga conto degli interessi generali per un servizio credibile agli occhi dei cittadini».
ARRIVA IL PIANO CARCERI Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, porterà domani in Consiglio dei ministri il più volte annunciato piano carceri che «partendo dalla dichiarazione dello stato di emergenza», conterrà «tre pilastri» per risolvere la situazione di sovraffollamento. Al primo punto - ha detto lo stesso Alfano intervenendo in aula alla Camera nel corso della discussione di cinque mozioni - vi è un piano di edilizia penitenziaria grazie al quale la capienza delle carceri arriverà a 80 mila posti (contro gli attuali 63 mila di limite tollerabile, ndr). E ancora: «Ci saranno delle riforme di accompagnamento che atterranno il sistema sanzionatorio e che riguarderanno coloro che devono scontare un piccolo residuo di pena». Misura, questa, che dovrebbe riferirsi alla possibilità per i detenuti con un residuo di pena di un anno di andare agli arresti domiciliari. Infine, il Guardasigilli ha annunciato un aumento di organico «oltre duemila unità» della polizia penitenziaria.
ASSOCIAZIONI: "PIU' MISURE ALTERNATIVE" Usare i 500 milioni di euro previsti in Finanziaria per il piano carceri per finanziare diecimila progetti tutorati di recupero sociale per i detenuti. È una delle proposte di Antigone, Arci e Volontari in carcere-Caritas contro il sovraffollamento delle prigioni, presentate oggi a Montecitorio durante una conferenza stampa. Per rendere più vivibili gli istituti penitenziari occorrerebbe «rivedere le leggi sulle droghe, sull'immigrazione e sulla recidiva, ridurre il numero di persone in custodia cautelare e prevedere la messa alla prova anche per gli adulti; bisognerebbe inoltre introdurre la figura del difensore civico nazionale delle persone private della libertà e il crimine di tortura e assumere mille educatori e mille assistenti sociali». Le proposte sono state presentate in concomitanza con la discussione alla Camera sulle mozioni sul sistema carcerario e Antigone, Arci e Vis-Caritas auspicano che possano essere recepite nel documento finale. «Un detenuto in affidamento sociale - ha osservato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - costa un decimo di un detenuto in carcere, meno di 20 euro al giorno. Con i 500 milioni di euro del piano carceri si potrebbero finanziare 10 mila progetti tutorati, che sono una condizione di sicurezza dal momento che il tasso di recidiva di chi sconta la pena con una misura alternativa è del 30% contro il 68% di chi sconta l'intera pena in carcere. Inoltre, una parte minima di quei soldi potrebbe essere usata per costruire case alloggio dove portare le detenute madri con i loro bambini sotto i tre anni. Farlo è solo una questione politica». Secondo don Sandro Spriano, presidente Vic-Caritas, «l'emergenza carceri non sono solo i numeri ma anche la vita quotidiana dietro le sbarre: a Rebibbia, ad esempio, ai detenuti viene dato un rotolo di carta igienica gratuito ogni due mesi e mezzo. Nelle carceri non ci sono soldi per le manutenzioni e nè per cambiare le lampadine».
SAPPE: "FINALMENTE CONCRETEZZA" «Dopo tante parole sul carcere, finalmente arriva la concretezza del 'farè »: il Sappe apprezzamento l' annuncio del ministro della Giustizia Alfano sulla presentazione al Consiglio dei ministri di domani della richiesta di stato di emergenza per le carceri italiane e di un nuovo piano delle carceri. Il giudizio del sindacato della Polizia Penitenziaria è «assolutamente positivo in relazione all'utilizzo delle procedure edilizie straordinarie ed alla necessità dell'assunzione, sempre con procedure di urgenza, di 2.000 unità di Polizia Penitenziaria». «Certo - si osserva in una nota - se si vuole arrivare ad avere in Italia una capienza detentiva di complessivi 80mila posti non basta assumere solo duemila Agenti. Se queste assunzioni sono invece la prima tranche di un più complessivo sistema di incremento sostanziale degli organici del Corpo, allora bisognerebbe incontrarsi quanto prima con il ministro Alfano per mettere mano alle piante organiche del Corpo di Polizia Penitenziaria». Il Sappe condivide anche le annunciate «norme di accompagnamento che attenuino il sistema sanzionatorio per chi deve scontare un piccolissimo residuo di pena» e chiede al ministro di «porre in essere ogni strumento per arrivare a definire finalmente i circuiti penitenziari differenziati nonchè accordi concreti con i Paesi esteri affinchè i detenuti stranieri (ben 25mila in Italia) scontino la pena nelle carceri dei Paesi di provenienza. A cominciare dai sei Paesi dai quali provengono il maggior numero di detenuti stranieri (16.610): Marocco (5.233), Tunisia (3.206), Romania (3.136), Albania (2.857), Nigeria (1.135) e Algeria (1.053)»
Segio: si buttano i soldi, occorrono pene alternative
Il Mattino, 13 gennaio 2010
"È la direzione di marcia che va invertita. Non si può perseverare negli errori": Sergio Segio boccia il governo. Il carcere lo conosce bene: ex terrorista di Prima Linea, scontata la pena a 22 anni, di detenuti si occupa a tempo pieno collaborando con Cgil, Don Ciotti e Sergio Cusani. Spiega: "Negli ultimi trent’anni in edilizia penitenziaria sono stati spesi oltre tre miliardi e mezzo di euro. Una cifra spropositata, buttata al vento per ritrovarsi in situazioni di cronica emergenza e sovraffollamento".
C’è voluto Napolitano per far affrontare il problema?
"Mi ha colpito che abbia citato la realtà del carcere nel suo discorso, non è usuale. È segno della sensibilità umana e istituzionale della persona ma anche della gravità della situazione: non sono più assicurabili dignità umana nelle celle e dignità professionale per gli operatori. Siamo a grave rischio di esplosione perché c’è un limite alla legge fisica, alla compenetrabilità dei corpi. Lo dice l’esperienza, un’esperienza tanto più grave in quanto colpevolmente trascurata da tantissimo tempo".
Cosa manca tra un grido d’allarme e l’altro sull’emergenza?
"Il progetto: una cultura della pena e della pena alternativa. Nonostante giuristi e politici ripetano che il carcere deve essere l’extrema ratio, continua ad essere la scorciatoia per qualsiasi problematica sociale. È sovraffollato di figure marginali: tossicodipendenti, immigrati, condannati per reati di basso profilo e bassa pericolosità".
Arriva un piano di edilizia carceraria per 80mila posti e il sindacato dice che ne servono il triplo. Si è sempre in ritardo rispetto alla realtà?
"È un circolo vizioso. L’esperienza dice che, quanti più posti in carcere si allestiscono, tanto più saranno rapidamente riempiti e quindi deficitari, perché c’è una politica giudiziaria penale che contiene i numeri per quelli che sono i posti disponibili. Quindi non è la risposta giusta, ed è oltretutto la più costosa".
Quale è, allora, la strada giusta?
"Smettere di considerare i reclusi scorie non riciclabili e il carcere una pattumiera sociale, un sostituto a basso costo delle politiche sociali. Anche perché a basso costo non è. Un detenuto in cella, in queste condizioni!, costa circa duecento euro al giorno: un tossicodipendente in comunità terapeutica, dove non viene solo accatastato ma aiutato, costa un terzo. E smettere di considerare direttori, agenti e operatori dei netturbini, mortificando il loro lavoro, per consentirgli di usare, come dice la Costituzione, il tempo della pena per il reinserimento. Vuol dire investire in prevenzione, formazione, reinserimento lavorativo con incentivi ad imprese e terzo settore, misure alternative. Sono quattro pilastri. Il ministro ne propone tre, ma così un edificio è sghembo e pericolante".
Alfano annuncia anche fondi per assumere nuovi agenti.
"Anche questa non è la risposta giusta. Se fondi ci sono, dovrebbero andare a migliorare il trattamento degli agenti esistenti che sono più che sufficienti ma mal distribuiti. E, quel che mi preoccupa ancor di più, si parla solo di nuovi agenti e non di educatori e assistenti sociali, le figure professionali cronicamente carenti nei penitenziari".
Bernardini; svuotare le carceri con misure alternative
La Stampa, 13 gennaio 2010
Rita Bernardini occorre costruire più carceri?
"Occorrono nuovi carceri soprattutto per sostituire e abbattere quelli più vecchi e fatiscenti. Ma occorre soprattutto aprire e far funzionare alcuni reparti mai utilizzati che io stessa ho vistato, per esempio a Matera o di Barcellona Pozzo di Gotto, nuovi ma chiusi per mancanza di personale".
Che cosa la preoccupa di più del nuovo piano di edilizia penitenziaria?
"Le procedure di appalto. Non vorrei che ci ritrovassimo a fare i conti con un altro scandalo delle "carceri d’oro" dopo quello degli anni Ottanta. Dunque: gare di appalto quanto mai trasparenti".
Ottantamila posti saranno sufficienti?
"No, sono troppi. Lo so che c’è il sovraffollamento, ma a questo fenomeno dobbiamo rispondere non con la moltiplicazione delle celle, ma con misure alternative alla detenzione. Esempi? Gli arresti domiciliari dove possibile. L’estensione della "messa in prova" con affido ai servizi sociali per alcuni tipi di reato. Inoltre il 25% dei detenuti è costituito da tossicodipendenti che hanno commesso reati a motivo della loro condizione: per queste persone va previsto l’affido a comunità terapeutiche e non al carcere".
Voi proponete anche una revisione della custodia cautelare. In cosa consiste?
"Sostanzialmente nella riduzione dei tempi di custodia. Il 50% dei detenuti è in attesa di processo e di questi, dati alla mano, il 30% viene poi dichiarato innocente. Questo è uno spreco di risorse e di posti, per non dire degli aspetti umani di un simile trattamento".
La parola amnistia si può pronunciare?
"Da parte nostra sì, ma l’aula di Montecitorio ha respinto nettamente questa ipotesi. E pensare che una amnistia di fatto c’è: ogni anno 200 mila reati passano in prescrizione. Ma nessuno se ne spaventa".
Berlusconi; no amnistie, soluzione durerà nel tempo
9colonne, 13 gennaio 2010
"Uno Stato civile toglie la libertà a chi commette un reato e viene giudicato colpevole da un tribunale, ma non può togliere la dignità e attentare alla salute dei detenuti che si trovano nelle carceri" così Berlusconi ha parlato in conferenza stampa del piano carceri varato dal Consiglio dei ministri, aggiungendo che per questo piano sarà usato "il sistema dei tre turni che ci ha consentito in Abruzzo di mettere sotto un tetto quanti avevano perso una casa".
Il presidente del Consiglio ha sottolineato come nelle carceri hanno dormito ieri 64.670 detenuti, sostenendo che si tratta di "una situazione non più tollerabile. Se in passato - aggiunge - si sono fatti condoni e amnistie, noi vogliamo creare una situazione che duri nel tempo". In questo quadro si interverrà anche con "l’assegnazione dei domiciliari a chi deve scontare un ultimo periodo di pena e quindi non ha alcun interesse a fuggire".
Questi i numeri: nel corso dello stato d’emergenza che durerà fino al 31 dicembre del 2010 - ha spiegato sempre in conferenza stampa il ministro della Giustizia Angelino Alfano "saranno costruiti 47 nuovi padiglioni nelle vecchie strutture sul modello dell’Aquila" mentre, nel corso del 2011 e del 2012, "saranno realizzate strutture flessibili e tradizionali su modello dell’Aquila": in totale, 21.749 posti in più.
Responsabile di questa "missione", come l’ha definita Alfano, sarà il capo del Dap, Franco Ionta. "Con 600 milioni di euro - spiega il Guardasigilli - costruiremo i 47 nuovi padiglioni. 500 milioni arrivano dalla legge Finanziaria mentre 100 milioni arrivano dal bilancio del ministero della Giustizia". Il Consiglio dei ministri ha varato anche un ddl che introduce la possibilità dei domiciliari per chi deve scontare un anno di pena residua e la messa alla prova delle persone imputabili per reati fino a tre anni, che potranno, spiega Alfano, "svolgere lavori di pubblica utilità sospendendo il processo".
Le carceri invivibili... persino Alfano se n’è reso conto
di Silvia D’Onghia
Il Fatto Quotidiano, 13 gennaio 2010
Alla fine se n’è accorto persino il ministro della Giustizia, Angelino Alfano: la situazione delle carceri richiede provvedimenti di emergenza. Tanto che oggi il Guardasigilli porterà in Consiglio dei ministri il suo "piano", "confidando" che i colleghi comprendano la gravità del momento.
Un piano, per la verità più volte annunciato, che dovrebbe vertere su tre punti: un incremento dell’edilizia penitenziaria che porti la capienza a 80 mila posti (dagli attuali 43 mila disponibili); riforme di accompagnamento, che "atterranno il sistema sanzionatorio e riguarderanno coloro che devono scontare un piccolo residuo di pena" (possibile ricorso a misure alternative come gli arresti domiciliari); un aumento di organico di "oltre duemila unità" nella polizia penitenziaria. "Dobbiamo immaginare - ha annunciato Alfano - una strada diversa rispetto a quella percorsa in questi 60 anni di storia repubblicana che ha sempre fatto i conti con l’emergenza nelle carceri, con il sovraffollamento individuando sempre la stessa risposta: provvedimenti di amnistia e indulto".
Tanto per rispondere ai Radicali che, per bocca di Rita Bernardini, continuano a chiedere un’amnistia come base per risolvere il problema della giustizia. Bernardini ha però ieri incassato un risultato importante: la Camera ha approvato 12 dei 20 punti della mozione, presentata assieme ad altri 92 deputati, che impegna il governo ad un’ampia riforma del sistema carcerario.
Via libera, per esempio, alla riduzione dei tempi di custodia cautelare per i reati meno gravi, ad una reale protezione del detenuto, al rafforzamento delle misure alternative, all’attuazione del principio di territorialità della pena, all’adeguamento degli organici del personale penitenziario. "Sappiamo che quando si strappa un contratto, poi bisogna lottare per farlo attuare - commenta la deputata radicale - dobbiamo fare la stessa cosa con quanto abbiamo strappato oggi. Quanto al piano carceri, il governo continua a non rispondere su questioni fondamentali. Il personale è già carente con l’attuale numero dei detenuti, figuriamoci per un numero superiore. Inoltre, girando per le carceri, ho visto io stessa interi reparti nuovissimi chiusi per mancanza di personale penitenziario.
Poi non capiamo perché si devono costruire nuovi istituti se si pensa a misure alternative". Oltre tutto i duemila agenti in più annunciati da Alfano, che si è guardato bene dallo specificare i tempi di questi ingressi, sono già meno di quanti ne occorrerebbero oggi. "Siamo sotto di 6.000 persone - commenta il segretario generale del sindacato Sappe, Donato Capece - speriamo che il Consiglio dei ministri licenzi un provvedimento che vada ben oltre il numero annunciato dal Guardasigilli, di cui comunque apprezziamo la volontà". Giudizio cautamente positivo dalla Uilpa Penitenziari:
"È un impegno politico concreto che va nella direzione che avevamo chiesto - afferma il segretario generale, Eugenio Sarno - ora ci aspettiamo dì poter scrivere insieme, come lo stesso ministro aveva annunciato tempo fa, il piano carceri". L’annuncio della costruzione di nuovi istituti però non convince molti, a cominciare dall’ex segretario del Pd Dario Franceschini, che in aula ha chiesto al governo di "non abusare dello strumento d’ordinanza al posto dei normali provvedimenti legislativi".
Più duro ancora Patrizio Gonnella, presidente di Antigone: "Se l’emergenza significa secretare le gare d’appalto, affidandole al capo del Dap come commissario straordinario, non seguire le regole pubbliche, ma andare in trattativa privata, allora è meglio non fare il piano carceri. Il ministro ha poi sparato numeri a caso: se è bravissimo, entro un anno con le risorse a disposizione riesce al massimo ad avere 5 mila posti in più". Un solo elemento positivo: la presa di coscienza". Che speriamo non diventi uno spot elettorale.
Le Associazioni; più misure alternative, meno edilizia
Redattore Sociale - Dire, 12 gennaio 2010
I 500 milioni previsti in Finanziaria per l’edilizia penitenziaria per 10 mila progetti di recupero sociale: lo chiedono Antigone, Arci e Vic. Gonnella: "Costruire nuove carceri è una proposta che in Italia non funziona".
Usare 500 milioni previsti in Finanziaria per l’edilizia penitenziaria per 10 mila progetti di recupero sociale, al costo di 50 mila euro l’uno. È questo il primo provvedimento d’urgenza contro il sovraffollamento delle carceri e per il rispetto dei diritti dei detenuti presentata questa mattina presso la sala del Mappamondo della Camera da Antigone, Arci e Vic, Volontariato in carcere. "Sarebbe una proposta che porta via in modo sistemico le persone che hanno scarsa pericolosità sociale dal sistema penitenziario - ha spiegato Patrizio Gonnella -, mentre costruire nuove carceri è una proposta che in Italia non funziona".
Per Gonnella, oggi si tratta di puntare di più sulle misure alternative e non sull’edilizia. Occorre "rilanciare un sistema che già funziona nel processo penale minorile - ha aggiunto Gonnella - che è quello della messa alla prova. Ridurre i tempi di custodia cautelare, rendere meno obbligatoria per alcuni reati la custodia cautelare. Prevedere inoltre, rispetto alle condizioni drammatiche di vita che oggi determinano la violazione dei diritti umani, l’istituzione di una figura di garanzia nazionale per le persone private della libertà e introdurre il crimine di tortura nel codice penale". Figura, quest’ultima, presente in molti paesi europei con il compito di mediare tra il personale e la popolazione detenuta.
Più misure alternative
Sono 7.737 i detenuti in misura alternativa, di cui soli 778 in semilibertà. All’inizio del 2006 erano 23.394. 19.823 persone stanno scontando una pena inferiore ai tre anni e potrebbero quindi accedervi. Il tasso medio di recidiva "ordinario" è del 68% fra la popolazione detenuta e del 30% fra coloro che hanno scontato la pena prevalentemente in misura alternativa. Due ostacoli lo impediscono: 1) gli impedimenti frapposti dalla legge ex Cirielli sulla recidiva; 2) la cautela della magistratura di sorveglianza. Oggi vi sono 24 mila detenuti in più rispetto ai posti letto regolamentari. Il Governo ha stanziato 500 milioni per l’edilizia penitenziaria. Un carcere da 200 posti costerebbe circa 20 milioni. Con 500 milioni, seppur in un anno si riuscissero a costruire 25 mini-carceri (cosa mai successa nella storia repubblicana) avremmo 5000 nuovi posti letto, i quali sarebbero comunque assorbiti, visti i trend di crescita di 800 unità al mese, in un solo semestre. Una politica criminale lungimirante dovrebbe a nostro avviso guardare alle cause del sovraffollamento e intervenire su ciò che produce carcerazione senza far accrescere la sicurezza pubblica. Un detenuto in affidamento sociale costa un decimo di un detenuto in carcere, ossia meno di 20 euro al giorno. Con quei 500 milioni si potrebbero finanziare 10 mila progetti tutorati di recupero sociale per detenuti che potrebbero svolgere ben più proficui lavori socialmente utili. Inoltre, una parte minima di quei soldi, potrebbe essere usata per costruire case alloggio dove portare le detenute madri con i loro bambini sotto i tre anni oggi costretti a trascorrere l’infanzia in galera.
Rivedere le leggi sulle droghe, sull’immigrazione e sulla recidiva
La legge sulle droghe Fini-Giovanardi è la normativa con il maggior impatto sul sistema penale e penitenziario. Un terzo dei detenuti entrati in carcere è tossicodipendente. Il 31% dei detenuti è dentro per violazione del Testo Unico sugli stupefacenti. In attesa di una riforma complessiva che sposti tra l’altro l’asse dalla penalizzazione alla prevenzione (si pensi che oggi ci sono più tossicodipendenti in carcere che nelle comunità terapeutiche) per contenere il sovraffollamento subito si può: 1) dare maggiore rilevanza alla "lieve entità" nell’ipotesi di produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti; 2) riduzione sostanziale delle pene per il piccolo spaccio; 3) favorire l’accesso alle misure alternative per i tossicodipendenti. Anche la legge sulla immigrazione apporta grandi numeri al carcere senza apportare sicurezza. Sono stati 13 mila nel 2009, sui 43mila stranieri complessivi, gli ingressi di extracomunitari in carcere per non aver ottemperato all’obbligo di espulsione. Basterebbe depenalizzare (o prevedere una sanzione non carceraria) il reato di mancata ottemperanza all’obbligo di espulsione del questore per decongestionare le carceri. La terza legge da modificare è la legge ex-Cirielli, diventata famosa come "legge salva-Previti". Essa non ha soltanto ridotto i termini di prescrizione dei reati, ma ha dato nuova forma e contenuto alla figura del "recidivo" e inventato la disciplina del "recidivo reiterato". Per il recidivo sono stati introdotti inasprimenti di pena, divieto di applicazione di circostanze attenuanti in alcuni casi, aumento dei termini per la richiesta di permessi premio, irrigidimento per la concessione delle misure alternative, divieto di sospensione pena. La normativa in oggetto ha tragicamente aggravato la condizione di sovraffollamento Questa legge va profondamente rivista.
Meno custodia cautelare, più messa alla prova
Andrebbe ridotto il numero di persone in custodia cautelare rivedendo i meccanismi di obbligatorietà della carcerazione preventiva ed estendendo l’applicazione degli arresti domiciliari. Andrebbe esteso agli adulti il meccanismo della messa alla prova già previsto per i minori.
Introduzione del difensore civico nazionale delle persone private della libertà
Di fronte al rischio di violazioni dei diritti umani all’interno degli istituti di pena, di fronte alle condizioni drammatiche di vita nelle carceri proponiamo la rapida approvazione di una legge che istituisca il difensore civico delle persone private della libertà su scala nazionale. In questo modo sarebbe garantito un controllo dei luoghi di detenzione così come impongono le norme internazionali. La custodia delle persone fermate, arrestate e detenute deve avvenire nel pieno rispetto della dignità umana. Questa figura, presente in molti paesi europei, potrebbe svolgere un efficace ruolo di mediazione tra il personale e la popolazione reclusa. Le risorse per il difensore civico così come per chi come il volontariato e il terzo settore opera nel mondo penitenziario, possono essere attinte dalla Cassa delle ammende. Circa 150 milioni di euro che altrimenti rischiano un’impropria utilizzazione.
Introduzione del crimine di tortura
L’introduzione del crimine di tortura nel codice penale sarebbe un gesto forte da parte dello Stato visto quanto accaduto negli ultimi mesi (caso Cucchi in primis). Uno Stato forte non deve temere la sottoposizione a giudizio. L’Italia è inadempiente rispetto a quanto previsto dalle Nazioni Unite nel lontano 1984.
Assunzione di 1.000 educatori e 1.000 assistenti sociali
Nelle carceri vi sono 42.268 poliziotti penitenziari in organico. 39.482 sono i poliziotti che lavorano effettivamente per l’amministrazione penitenziaria al netto di distacchi e assenze di vario tipo. Si riducono a 16 mila se si considerano coloro che sono destinati a altri incarichi fuori dalle carceri (1.600 lavorano al Dap). Tra le situazioni regionali di maggiore disagio vanno segnalate quelle del Piemonte, Veneto, Emilia Romagna e Sardegna. Per un sud che non ha carenze di organico vi è un nord dove la situazione è drammatica. Si tratta di eredità del passato difficili da gestire. Non servono nuovi poliziotti. Serve distribuirli meglio. Gli educatori sono circa 800 di cui più o meno 400 lavorano effettivamente nelle carceri. Gli assistenti sociali sono 1.140 di cui circa 900 lavorano negli Uepe (Uffici per l’esecuzione penale esterna). Con 1.000 educatori e 1.000 assistenti sociali si potrebbero velocizzare le pratiche per accedere alle misure alternative e si potrebbe aumentare la qualità dell’intervento di risocializzazione esterna rendendolo più sicuro e controllato.
sabato 9 gennaio 2010
martedì 5 gennaio 2010
Camera: l’11 due mozioni sulla "emergenza carcere"
di Benedetta Verrini
Vita, 5 gennaio 2009
Due mozioni che tengono conto del "numero elevato ed in costante crescita della popolazione detenuta, che ad oggi si avvicina alle 66.000 presenze - a fronte di una capienza regolamentare di 43.074 posti" e del "sovraffollamento insostenibile delle nostre strutture penitenziarie": sono le prime voci nell’agenda della Camera dei deputati che si riunirà dopo la pausa di festività l’11 gennaio. La prima delle due mozioni rivolte al governo, firmata da un gruppo trasversale di deputati tra cui Della Vedova (Pdl), Pistelli (Pd), Coscioni (Pd), Realacci (Pd), impegna il governo a un pacchetto complesso di riforme "volte ad attuare, con il più ampio confronto con le forze politiche presenti in Parlamento, una riforma davvero radicale in materia di custodia cautelare preventiva, di tutela dei diritti dei detenuti, di esecuzione della pena e, più in generale, di trattamenti sanzionatori e rieducativi". Ecco di seguito le iniziative proposte:
a) la riduzione dei tempi di custodia cautelare, perlomeno per i reati meno gravi, nonché del potere della magistratura nell’applicazione delle misure cautelari personali a casi tassativamente previsti dal legislatore, previa modifica dell’articolo 280 del codice di procedura penale;
b) l’introduzione di meccanismi in grado di garantire una reale ed efficace protezione, del principio di umanizzazione della pena e del suo fine rieducativo, assicurando al detenuto un’adeguata tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’amministrazione penitenziaria lesivi dei suoi diritti;
c) l’istituzione a livello nazionale del Garante dei diritti dei detenuti, ossia di un soggetto che possa lavorare in coordinamento e su un piano di reciproca parità con la magistratura di sorveglianza, in modo da integrare quegli spazi che non possono essere tutti occupati in via giudiziaria;
d) il rafforzamento sia degli strumenti alternativi al carcere previsti dalla cosiddetta legge "Gozzini", da applicare direttamente anche nella fase di cognizione, sia delle sanzioni penali alternative alla detenzione intramuraria, a partire dall’estensione dell’istituto della messa alla prova, previsto dall’ordinamento minorile, anche al procedimento penale ordinario;
e) l’applicazione della detenzione domiciliare, quale strumento centrale nell’esecuzione penale relativa a condanne di minore gravità, anche attraverso l’attivazione di serie ed efficaci misure di controllo a distanza dei detenuti;
f) l’istituzione di centri di accoglienza per le pene alternative degli extra-comunitari, quale strumento per favorirne l’integrazione ed il reinserimento sociale e quindi ridurre il rischio di recidiva;
g) la creazione di istituti "a custodia attenuata" per tossicodipendenti, realizzabili in tempi relativamente brevi anche ricorrendo a forme di convenzioni e intese con il settore privato e del volontariato che già si occupa dei soggetti in trattamento;
h) la piena attuazione del principio della territorialità della pena previsto dall’ordinamento penitenziario, in modo da poter esercitare al meglio tutte quelle attività di sostegno e trattamento del detenuto che richiedono relazioni stabili e assidue tra quest’ultimo, i propri familiari e i servizi territoriali della regione di residenza;
i) la revisione del sistema di sospensione della pena al momento della definitività della sentenza di condanna, abolendo i meccanismi di preclusione per i recidivi specifici e infraquinquennali reiterati nonché per coloro che rientrano nell’articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975, sull’ordinamento penitenziario; introducendo, nel contempo, termini perentori entro i quali i tribunali di sorveglianza devono decidere sulla misura alternativa richiesta;
l) l’abolizione del meccanismo delle preclusioni di cui all’articolo 41-bis della citata legge n. 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario con recupero da parte della magistratura di sorveglianza e degli organi istituzionalmente competenti del potere di valutare i singoli percorsi rieducativi in base alla personalità del condannato, alla sua pericolosità sociale e a tutti gli altri parametri normativamente previsti;
m) la radicale modifica dell’articolo 41-bis della citata legge n. 354 del 1975, sull’ordinamento penitenziario in modo da rendere il cosiddetto "carcere duro" conforme alle ripetute affermazioni della Corte costituzionale sulla necessità che sia rispettato, in costanza di applicazione del regime in questione, il diritto alla rieducazione e ad un trattamento penitenziario conseguente;
n) l’adeguamento degli organici del personale penitenziario ed amministrativo, nonché dei medici, degli infermieri, degli assistenti sociali, degli educatori e degli psicologi, non solo per ciò che concerne la loro consistenza numerica, ma anche per ciò che riguarda la promozione di qualificazioni professionali atte a facilitare il reinserimento sociale dei detenuti;
o) il miglioramento del servizio sanitario penitenziario, dando seguito alla riforma della medicina penitenziaria già avviata con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1o aprile 2008, in modo che la stessa possa trovare, finalmente, effettiva e concreta applicazione;
p) l’applicazione concreta della legge 22 giugno 2000, n. 193 (cosiddetta legge Smuraglia), anche incentivando la trasformazione degli istituti penitenziari, da meri contenitori di persone senza alcun impegno ed in condizioni di permanente inerzia, in soggetti economici capaci di stare sul mercato e, come tali, anche capaci di ritrovare sul mercato stesso le risorse necessarie per operare, riducendo gli oneri a carico dello Stato e, quindi, della collettività;
q) l’esclusione dal circuito carcerario delle donne con i loro bambini;
r) la limitazione dell’applicazione delle misure di sicurezza ai soli soggetti non imputabili (abolendo il sistema del doppio binario) o comunque l’adozione delle opportune iniziative normative volte ad introdurre una maggiore restrizione dei presupposti applicativi delle misure di sicurezza a carattere detentivo, magari sostituendo al criterio della "pericolosità" (ritenuto di dubbio fondamento empirico) quello del "bisogno di trattamento";
s) la possibilità per i detenuti e gli internati di coltivare i propri rapporti affettivi anche all’interno del carcere, consentendo loro di incontrare le persone autorizzate ai colloqui in locali adibiti o realizzati a tale scopo, senza controlli visivi e auditivi;
t) l’istituzione di un’anagrafe digitale pubblica delle carceri in modo da rendere la gestione degli istituti di pena trasparente al pubblico;
u) una forte spinta all’attività di valutazione e finanziamento dei progetti di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, nonché di aiuti alle loro famiglie, prevista dalla legge istitutiva della Cassa delle ammende;
v) la modifica del testo unico sulle sostanze stupefacenti di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, in particolare prevedendo che anche l’attività di coltivazione di sostanza stupefacente il cui ricavato sia destinato ad un uso esclusivamente personale venga depenalizzata ed assuma quindi una rilevanza meramente amministrativa in conformità a quanto previsto dal referendum del 1993.
lunedì 4 gennaio 2010
SocialNews- Non devono esserci più morti sospette
Il carcere che vorremmo
Il Direttore, il Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria, l’agente, l’assistente sociale, lo psicologo, l’educatore, il cappellano, il medico, ecc., devono essere una costante espressione di legalità e di buon senso, attori di una logica che si armi della “forza della persuasione” e non della persuasione della forza.
In queste giornate, dove si affastellano le notizie gravi che, come un fiume carsico, sono improvvisamente (ma non per noi direttori penitenziari…) sgorgate dal Mondo delle Carceri, un’ondata di insinuazioni e di luoghi comuni ci ha colpito, un’ondata che ha travolto la comunità degli operatori penitenziari, ulteriori vittime di un’ingiusta crocifissione. La nostra colpa vera è d’esserci, la colpa è di avere preferito un lavoro che, per molti di noi, è una missione, nei luoghi più difficili dell’umanità: la colpa è di lavorare in carcere… Le nostre sono sensazioni dolorose, finanche umilianti, perché, per chi creda nel lavoro penitenziario, esserci nel sistema è immedesimarsi anche in tutti gli avvenimenti che lo riguardano, addirittura confondendosi con il grigiore degli ambienti che, quando riusciamo a portare avanti i mille progetti di reinserimento che pure pullulano nelle carceri italiane, ai nostri occhi perdono la loro disumanità e bruttezza, e non sono più fatte di sole grate e cancelli, di mura scrostate o dipinte con i colori di fortuna, di stanze sovraffollate dalle temperature tropicali d’estate e rigide d’inverno, ma luoghi d’incontro, di scommessa, di speranza, di visi e di occhi che si intrecciano e che cercano, insieme, il recupero della dignità nella responsabilità.Pur non declinando al dovere che si ha verso tutti i cittadini e le istituzioni di fare “sicurezza”, di evitare che le persone, prigioniere, scappino, evadano dal carcere e tornino a delinquere, il nostro pensiero parallelo, la nostra quotidiana azione, pur a fronte di risorse risibili, offensive e “razionalmente” distanti dagli obiettivi che ci imponiamo, è rivolto verso quella parola magica, che è per noi la sublimazione della sicurezza, la sicurezza “nobile” e duratura, che indichiamo come RECUPERO della persona detenuta alla Società.
Quando però accadono fatti inquietanti, come la morte ancora non chiarita di un giovane uomo, di un detenuto (ma uguale sensazione dolorosa troveremmo ove anche si trattasse del decesso violento e/o suicidario di un nostro operatore…), al di la di qualunque accertamento della verità che pretendiamo senza sconti ed in tempi rapidi, ci sentiamo comunque coinvolti, pur senza colpa, perché a noi non basta la giustificazione: “non potevo farci nulla, non ho responsabilità, non dipende da me…”, provando come mortificazione profonda ogni fatto dove l’uomo, la persona, risulti sopraffatta, annichilita, numero perso nella moltitudine, senza più speranza. È un lavoro difficile il nostro, spartiacque tra la forza e la ragionevolezza, “freddi” nelle situazioni “calde”, “caldi” nelle situazioni “fredde”: tra la pena e la speranza, tra la voglia di giustizia fai da te e truculenta di quanti, “fuori”, si alimentano d’odio e di banalità da regimi illiberali, e che sempre tentano l’agguato verso i valori della legalità e del rispetto dei diritti umani, e la corrente “opposta”, non meno dannosa, di quanti sottostimano la centralità della responsabilità individuale, preferendosi quella “cosmica ed universale”, possibilmente degli altri, in primo luogo dello Stato, ripetendo una lettura ideologica e minimalista, fastidiosa e perdonista, di chi dimentica in modo tranciante che dietro un reato spesso ci sono vittime inascoltate e che se anche non ci fossero le leggi, non sarebbe accettabile fare del male agli altri... I flussi di risorse economiche ed umane che da anni sono destinate al serraglio penitenziario sono la prova di un’attenzione sociale e politica a corrente alternata: in verità, se si vuole fare del carcere duro, non c’è forse neanche bisogno di produrre nuove norme, basta rallentare e/o ridurre gli stanziamenti dei finanziamenti destinati all’assunzione del personale penitenziario necessario, o quelli finalizzati per assicurare i servizi essenziali negli istituti, per ammodernare le strutture carcerarie, per rendere la pena detentiva utile, produttiva e meno stupida, ponte necessario tra una situazione di deprivazione, anche morale, ad altra ed alternativa, di conquista di diritti di cittadinanza.
Se si vuole fare carcere duro, basta non assumere nuovi direttori penitenziari e non distribuire ragionevolmente quelli presenti, talché accadrà che tante prigioni risulteranno “governate” a distanza, o da direttori “saltellanti” e temporanei, veramente mobility-manager, ma di se stessi, talchè che, inevitabilmente, i “vuoti” saranno riempiti da altre figure semmai presenti, le più diverse, pure “specialistiche” e brave, ma altre… Quante volte si dovrà ripetere che i Direttori nelle carceri rappresentano il punto di equilibrio, il riferimento al sistema delle garanzie e dei doveri, di tutti, nessuno escluso… Eppure c’è chi li vorrebbe “far fuori”, e non sono le nuove BR (basterebbe navigare su diversi siti di alcuni sindacati per rendersene conto…), chi li vorrebbe relegare a meri notabili e sacerdoti laici di attività e compiti amministrativi, a dispetto delle leggi attuali e di una concezione dell’esecuzione penale trasversale negli ambiti sensibili al sociale in qualunque parte del mondo civile, sia a dritta che a manca. C’è chi sostiene l’idea di un nuovo carcere del futuro senza direttori penitenziari, o meglio dove il direttore non è più responsabile della sicurezza globale, dell’ordine e della disciplina: sicurezza, ordine e disciplina che, nell’ottica dei direttori, sono categorie di valori rivolti anzitutto, prima di tutto, alla struttura, all’organizzazione penitenziaria nella generalità delle sue componenti umane, a se stessi perché significano il primato della legalità, ancorché verso i detenuti, perché (ed è questa la “lucida follia” dei direttori…) i prigionieri, le persone private di libertà, i delinquenti o sfigati di turno, “possono sbagliare”, possono ritornare, anche in ambito penitenziario, a ricommettere dei reati e ciò sarebbe “contrattualmente accettabile” come rischio, comprensibilmente declinabile nella parte che si recita, ma per gli operatori penitenziari, dal direttore fino all’ultimo agente appena assunto, NO: questa “opzione” non è ad essi consentita, non è ammissibile. Il “gioco” del carcere della legalità, con le sue regole, impone un ruolo necessariamente diverso, “alternativo” rispetto a quello di quanti, per avere violato la legge, ne sono gli obbligati “ospiti”… Il Direttore, il Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria, l’agente, l’assistente sociale, lo psicologo, l’educatore, il cappellano, il medico, ecc., devono essere una costante espressione di legalità e di buon senso, attori di una logica che si armi della “forza della persuasione” e non della persuasione della forza.
Allora capirete il malessere, la mortificazione, il senso di sfiducia che prende gli operatori penitenziari, e primi tra tutti, gli stessi direttori quando, dal mondo dell’informazione, dalla stampa e dal cicaleccio mediatico sembrano uscire allusioni, critiche, se non vere e proprie infamanti accuse sul modo con il quale, in quel luogo sacro, perché pieno di sofferenze e che anela alla libertà, rappresentato dal Carcere, si vuole far intendere che non la legalità, quella che aiuta ed orienta, quella che assicura alle persone detenute, non la libertà, ma, almeno, una seconda “chance”, il primato, al contrario, sia deposto nella violenza, nell’indifferenza, nell’assenza di umanità, nella sopraffazione. Il Carcere in Italia non è questo, noi non vogliamo che sia questo! Noi direttori penitenziari rigettiamo con sdegno tali accuse, non le riteniamo una cosa giusta, non le meritiamo, così come non le meritano la stragrande maggioranza degli operatori penitenziari, da anni abbandonati in prigioni di cui ancora poco si sa e si comprende, prigioni che rappresentano ogni giorno, tutti i giorni, i campi di battaglia della legalità, dove le riforme inaridiscono in una notte e le illusioni si traducono in rivendicazioni e rabbia, in un baleno, all’indomani. Di vetro, di solido vetro blindato vorremmo che fossero fatte le carceri, e che fossero situate nel mezzo delle piazze, con grandi luminarie affinché tutti, proprio tutti, possano vedere al loro interno, che siano costretti a scrutarle e non possano più giustificare la loro ignoranza sulle cose…Di quanta superficialità sono fatti i giudizi impietosi che spesso riceviamo, di quanta ipocrisia “le cure” che, secondo le paure e le rabbie del momento, o per il lucido calcolo di un consenso di popolame a buon mercato, ci vengono suggerite da urlanti giustizieri politicamente impegnati, al fine di risolvere radicalmente, almeno a parole, di volta in volta il problema dei pedofili, degli stupratori, dei rapinatori, dei terroristi, dei tossicodipendenti, dei truffatori, ecc.: di quanta violenza desiderata, e che si vorrebbe noi replicassimo, siamo destinatari…
Costretti ad operare in un contesto che non premia il sacrificio, che non riesce a costruire un sistema di regole contrattuali che siano anche deontologicamente vincolanti per i destinatari tra i quali, seppure non in molti, si celano assenteisti cronici e spiriti non in pace con se stessi, dove pochi, ma vocianti, pochi, ma organizzati, sfruttano ogni appiglio possibile per mettere in cattiva luce quanti, i direttori prima di tutti, non arretrano in tema di ragionevolezza e legalità sostanziale, oggi dobbiamo subire l’ulteriore offesa: ma ormai siamo arrivati al Capolinea e dilazioni, al Governo, alla Maggioranza, al Parlamento non sono più concedibili in materia di esecuzione penale e finanche di “Giustizia”! Tempo fa, come Sindacato dei Direttori e Dirigenti Penitenziari, urlammo l’esigenza di un “Piano Marshall” per le carceri. Non solo l’esigenza di realizzare nuove strutture penitenziarie, funzionali e finanche “belle” (perché devono essere un luogo di sicurezza pensato per i detenuti, ma anche per i lavoratori penitenziari…), di rivedere le dotazioni organiche previste e di per se insufficienti, ma nel contempo almeno riempire i vuoti vistosi che sono presenti, non solo l’esigenza di aprirsi ancor di più sul territorio, ricercando le migliori sinergie con gli enti locali, con il mondo della scuola e della formazione professionale, con le plurali confessioni religiose, con il mondo del volontariato impegnato nel sociale, ma anche di avere un botto di fantasia ragionevole per trovare risposte sanzionatorie alternative al carcere, quantomeno perché meno onerose per lo Stato. Noi direttori di proposte serie, che sappiano camminare sulle proprie gambe, tante ne abbiamo suggerite e tante altre potremmo farne, ma in verità, oggi, a chi interessano? Per cui, e concludo, basta con le ciance, basta con spallucce e con i rimedi da quattro soldi e perfettamente decontestualizzati dalla realtà: abbiamo bisogno di cose vere, di analisi che conoscono la regola del confronto; non intendiamo essere i custodi del Tempo dei detenuti e delle istituzioni che scorre inutile, vogliamo che il carcere sia fucina di intelligenze positive e di sicurezza, di valori di cittadinanza attiva e di partecipazione: del carcere della paura, della rabbia o della prevaricazione a ruoli ondivaghi ed alternati non siamo desiderosi, noi perlomeno. In Italia, le carceri italiane hanno conosciuto, come prigionieri, le più originali espressioni dell’elaborazione politica del secolo scorso: Mussolini, Pietro Nenni, Antonio Gramsci, Sandro Pertini, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, solo per citarne i più noti: nelle loro alterne fortune, questi personaggi conobbero le galere, le isole, la privazione di libertà; allora, perché mai oggi, le carceri italiane dovrebbero essere considerate la cosa peggiore e non il luogo dove, se c’è rispetto della dignità umana, possono trovarsi risposte rassicuranti per la società e una rinnovata positiva attenzione verso i temi dei diritti umani? Ecco, questo è il carcere che noi vorremmo.
SocialNews- Prvvedimenti inaspriti: le consegenze
Verrebbe ottimisticamente da dire che, da tempo, le carceri hanno cessato, almeno in Italia, di essere lo specchio o il termometro della civiltà del Paese. Ovvero, si potrebbe pensare che il clima culturale e le condizioni della nostra comunità nazionale siano assai migliori dello stato di degrado ed abbandono in cui versano 65.000 detenuti (al 30 settembre) e, per altro versante, decine di migliaia di operatori penitenziari. Certo, si potrebbe dire. Ma guardando all’imbarbarimento della vita pubblica e del dibattito politico, forse vale la pena tenere ancora in conto la massima illuminista. Oggi, il circuito degli istituti penitenziari è tornato a far notizia, a strappare qua e là il velo dell’informazione, a seguito, purtroppo, di frequenti e drammatici fatti di cronaca. Dietro i numeri ci sono storie e vite di cittadini, e il passaggio dai 39157 detenuti del gennaio 2007 alle cifre di oggi racconta di un’escalation destinata verisimilmente a superare le 70000 unità già nel primo semestre del prossimo anno. Nessun piano di edilizia carceraria predisposto dal Ministero di Grazia e Giustizia dispone dei tempi tecnici perché si possa intervenire concretamente su questa situazione. Né sembra politicamente praticabile la strada di un provvedimento clemenziale dopo l’orgia di strumentalità e polemiche intervenute a ridosso dell’ultimo indulto del 2006. Il quale, pur con le sue 27 cause di esclusione oggettiva, aveva riportato la popolazione detenuta sotto i termini della capienza regolamentare, attorno alle 43000 unità. Le cause di questa tendenza all’incremento progressivo della popolazione detenuta, come noto, non risiedono in analoga e parallela tendenza alla commissione di reati, ma è largamente imputabile alle scelte del legislatore.Sotto la spinta di una continua campagna mediatica sulla sicurezza dei cittadini, complici alcuni specifici fatti di cronaca, il Parlamento ha agito con un progressivo inasprimento del carico penale su numerose fattispecie di reato, con un costante aumento dei massimali di pena e restrizione del campo di esercizio dei benefici di legge, quando non con l’introduzione di nuovi reati (ad esempio sull’immigrazione).
L’efficacia reale di questa azione sugli obiettivi che dichiara di voler perseguire, per i dati oggi disponibili, è stata statisticamente assai poco rilevante. Ma cinque pacchetti sicurezza in tre anni, più altri provvedimenti specifici, danno bene l’idea dell’ampiezza dello spettro degli interventi. Guardando specificamente al risultato della lunga catena di montaggio politico-giudiziaria-securitaria, al contenuto delle carceri della Repubblica, cittadine e cittadini ristretti, risulta abbastanza evidente che la maggioranza di essi lo sono in relazione a due specifici testi unici: quello sull’immigrazione e quello sulle droghe, modificati in maniera significativa rispettivamente nel 2002 e nel 2006. Due testi normativi la cui incidenza nella prevenzione dei fenomeni cui si riferiscono è stata, nella migliore delle ipotesi, assai modesta. Addirittura, in parte, controproducente. Due testi normativi che hanno, però, avuto il sicuro effetto di sovraccaricare il circuito penale. Appare evidente che, a distanza di anni, bisognerebbe avere il coraggio di trarne un bilancio, con deciso cambio di rotta. Ma il dibattito sulla “riforma della giustizia”, che appare periodicamente con maggiore o minore urgenza e rilievo mediatico in una qualche relazione alle vicende processuali dell’attuale Presidente del Consiglio dei Ministri, svolge ben altri temi e si concentra prevalentemente sull’ordinamento giudiziario. E non vi è, a mio avviso, alcun elemento per pensare che volga ad una qualche diversa direzione. In concreto, ciò significa che la situazione nelle carceri va verso un progressivo aggravamento e che i fatti drammatici che le hanno riportate in evidenza sono purtroppo destinati a moltiplicarsi. Che il clima culturale degli ultimi anni sia molto distante dalle previsioni dell’Art. 27 della Carta costituzionale è un fatto incontestabile. Ciononostante, mi sembra ineludibile il fatto che, di fronte ad una riforma della giustizia di una qualche ampiezza, il tema di un provvedimento clemenziale di amnistia e indulto vada riproposto con forza, ricordando magari ai tribuni della “certezza della pena” che, a giudicare dalle carceri, per alcune categorie di cittadini italiani e stranieri la pena è, nei fatti, certissima, in stretta relazione con le condizioni economico sociali e l’effettiva possibilità di esercitare compiutamente il diritto alla difesa.
Daniele Farina
SocialNews- La misure alternative
L'efficacia delle pene in comunità
Il potenziamento dell’esecuzione penale esterna, con l’assegnazione di maggiori risorse umane e finanziarie permetterebbe di incrementare i rapporti di collaborazione con tutte le risorse del territorio al fine di promuovere azioni mirate a creare condizioni più favorevoli all’integrazione sociale dei soggetti in misura alternativa alla detenzione.
Proviamo seriamente a mettere al centro della discussione le misure alternative al carcere quale strumento efficace per alleggerire il sistema carcerario e diminuirne gli enormi costi economici a fronte di risultati risibili in materia di recidiva e reinserimento. Proviamo a credere che questo possa veramente accadere e vediamo quali riflessioni e prospettive ne conseguono. Cominciamo con il far parlare i numeri. Se prendiamo a riferimento il decennio pre-indulto dell’agosto 2006, vediamo che dal 1997 la popolazione detenuta in carcere è passata da circa 50 mila persone fino ai 63 mila detenuti al momento dell’indulto. Nello stesso periodo, la popolazione dei condannati in misura alternativa è cresciuta da 35 mila fino a 50 mila persone. Una realtà, quindi, assolutamente non trascurabile per un periodo di oltre dieci anni. Dopo l’indulto, questo valore è sceso a circa 11 mila unità, ed è tuttora mantenuto, a seguito delle scelte politiche fatte in questi anni. La popolazione carceraria, invece, negli ultimi tre anni, è andata progressivamente aumentando e ha ora raggiunto numeri di nuovo decisamente alti, tali da destare seria preoccupazione. In tema di sicurezza, di fronte a questi dati, si impone una constatazione di non poco conto, sia per la classe politica, sia per gli operatori del mondo dell'informazione e per l'opinione pubblica: la recidiva della nostra popolazione carceraria è stimata attorno al 70%, mentre quella della popolazione in misura alternativa è circa la metà. In alcune aree particolari, è al di sotto del 20%. Se ne deduce, quindi, che è la stessa condizione dell’esecuzione penale fuori dal carcere a porre le basi per un recupero sociale molto più efficace rispetto a chi ha scontato la pena in carcere.
Già questa deduzione rende non sempre comprensibili alcune scelte fatte dalla politica in nome della sicurezza, che puntano tutto sulle carceri ( vecchie o nuove che siano). Si fa già tanto, ma si potrebbe anche fare di più, se... Vediamo come. Nel calderone delle misure alternative, oggi si trova di tutto, dal condannato a pene elevate per spaccio o rapina al tossicodipendente condannato a pochi mesi per furto o oltraggio a pubblico ufficiale, autori di reati gravi e autori di reati bagatellari, condannati a 10/15 anni ammessi a scontare l’ultimo segmento (dai 3 anni in giù) in affidamento e condannati comuni con pene di pochi mesi o alla prima condanna. Per tutti, la stessa misura alternativa, programmi standard, anche operatori con formazione “standard”. Sembra la stessa cosa trattare con un ex mafioso, un giocatore d’azzardo, un tossicodipendente da cocaina o eroina, un autore di violenza domestica o un pedofilo, chi ha commesso truffe o emesso assegni a vuoto o contraffatto documenti e permessi di soggiorno, chi ha contrabbandato sigarette, uno straniero che ha rubato al supermercato o un ladro di polli... Ma la stessa cosa non è. Dunque, gli operatori penitenziari e gli assistenti sociali che lavorano negli U.EPE andrebbero per primi “specializzati” nel trattamento dell’una e dell’altra tipologia. In altri termini, non è da escludere l’opportunità di un intervento formativo mirato e differenziato che sostenga l’impegno professionale richiesto agli operatori a fronte delle tipologie “emergenti” degli ammessi o ammissibili alle misure alternative. Va considerato il contributo che gli U.EPE già danno, ma ancor più potrebbero dare, all’abbattimento della recidiva se, con una formazione “specializzata” e potendo avvalersi del contributo di esperti ex art.80, fossero messi in grado di effettuare indagini sociali e ambientali approfondite e individualizzate già nella fase dell’osservazione dei soggetti condannati che hanno fatto istanza di affidamento.
Va considerato il vantaggio che ne deriverebbe all’efficacia del reinserimento sociale se fosse attuato procedendo con un’attenta valutazione del rischio di ogni condannato, unitamente all’accurata predisposizione di un progetto individualizzato (ogni caso un progetto), dando così piena attuazione alle previsioni dell’art.72 O.P., così come rinnovellato dall’art.3 della Legge n.154/2005. Il potenziamento dell’esecuzione penale esterna, con l’assegnazione di maggiori risorse umane (compresi gli esperti ex art.80, psicologi e criminologi) e finanziarie, permetterebbe di incrementare i rapporti di collaborazione con tutte le risorse del territorio, al fine di promuovere azioni mirate a creare condizioni più favorevoli all’integrazione sociale dei soggetti in misura alternativa alla detenzione (più rete = più sicurezza).Da parte degli U.EPE, sono da sostenere maggiormente le politiche d’intervento sul piano della recidiva, sollecitando il coinvolgimento e la responsabilizzazione delle comunità locali nella costruzione dei percorsi di recupero. La società, intesa sia come istituzioni, sia come risorsa e ambito di reinserimento, non può più stare solo a guardare e giudicare o, peggio, defilarsi dicendo che tocca tutto o quasi all’Amministrazione Penitenziaria. In tal senso, ogni U.EPE può essere/diventare regista di un partnerariato locale che ruoti intorno al reinserimento quale scelta di sistema e non solamente quale intervento facoltativo o emergenziale. Infine, una collaborazione con le Forze dell’Ordine, non episodica, ma tempestiva ed elevata a sistema, contribuirebbe a “fare più sicurezza” e aumentare l'efficacia deterrente della misura alternativa. Senza bisogno di tenere chiusi in carcere soggetti alla prima condanna o autori di reati di modesta rilevanza penale, molti dei quali, tossicodipendenti in primis, bisognosi innanzitutto di cura e non di botte o sbarre alle finestre.
SocialNews- L'area penale esterna
Il dettato costituzionale afferma che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e, pertanto, la funzione della pena non è solo sanzionatoria. Sarebbe auspicabile quindi una nuova articolazione delle pene non detentive, accanto a quelle detentive previste per i reati più gravi.
Attraverso l’attività degli Uffici di Esecuzione Penale Esterna (denominati, prima del 2005, Centri di Servizio Sociale per Adulti), l’area penale esterna ha garantito per anni una maggiore vivibilità delle carceri, riducendo anche la recidiva. Negli ultimi tempi, invece, la politica penale ha progressivamente privilegiato l’applicazione di pene detentive, mostrando di tenere in scarsa considerazione la valenza trattamentale e risocializzante delle cosiddette misure alternative alla detenzione, in particolare quella meno restrittiva dell’affidamento in prova al servizio sociale. Il dettato costituzionale afferma che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Pertanto, la funzione della pena non è solo sanzionatoria: da ciò si deduce che il rischio di marginalità sociale e, conseguentemente, di recidiva nella commissione di reati non può essere contenuto solo attraverso politiche di controllo sociale di natura repressiva, le quali non tengono in debito conto la complessità del fenomeno della devianza.
Tale complessità richiede che, prima di adottare linee di intervento in ambito penale, vengano approfonditi gli aspetti salienti delle problematiche socio-penitenziarie, nonché analizzati e monitorati i bisogni “trattamentali” di particolari categorie di condannati (tossicodipendenti, soggetti con doppia diagnosi, sex-offenders, donne con figli piccoli...). Si pone, quindi, la necessità di una ricerca scientifica e professionale svolta adeguatamente, anche in collaborazione con il mondo della ricerca e dell’Università. Premesso ciò, è ormai ora che all’area penale esterna venga riconosciuta un’identità autonoma, diversa e non in opposizione al carcere. I risultati raggiunti nel corso dei più di 30 anni dalla riforma dell’ordinamento penitenziario e l’impegno profuso dai suoi operatori per favorire un continuo miglioramento della qualità del servizio fornito rappresentano i punti di forza per riuscire a ribaltare l’idea diffusa nella società civile che la pena scontata in comunità, fuori dal carcere, significhi impunità per il reo. L’ulteriore sviluppo dell’esecuzione penale esterna, sotto il duplice profilo quantitativo e qualitativo, necessita principalmente di un cambiamento culturale, indispensabile per determinare un clima socio-politico favorevole ad una riforma dell’attuale sistema sanzionatorio
. Sarebbe auspicabile una nuova articolazione delle pene non detentive, accanto a quelle detentive previste per i reati più gravi. In Italia, il potere di determinare la pena e la sua entità è attribuito unicamente al giudice di cognizione, mentre la concessione delle misure alternative alla detenzione sono di competenza della magistratura di sorveglianza. Una riforma del sistema sanzionatorio dovrebbe prevedere: altre tipologie di pene principali, diverse dalla detenzione in carcere (tra cui il lavoro di pubblica utilità o percorsi di giustizia riparativa), che siano erogate direttamente dal giudice di cognizione, ovvero “in sentenza”. Naturalmente, il giudice di cognizione, all’inizio del processo, dovrà essere in possesso di tutti gli elementi utili a valutare le concrete opportunità esistenti per un’effettiva presa in carico del soggetto da parte degli uffici preposti allo scopo; il differimento dell’azione penale per i reati minori, con la messa alla prova dell’imputato per un determinato periodo di tempo, durante il quale, se lo stesso manterrà il comportamento prescritto, il giudice potrà rinunciare ad esercitare l’azione penale.
Una riforma orientata verso pene differenti dal carcere potrebbe rappresentare il punto di mediazione tra l’esigenza di controllo e difesa sociale e quella di rieducazione degli autori di reato, senza togliere vigore al sistema punitivo. Tutto ciò richiede che gli uffici preposti all’esecuzione penale esterna siano messi in condizione di erogare un servizio di alta qualità professionale, con elevati livelli di efficienza, destinando loro maggiori risorse umane, finanziarie e strumentali ed adottando un modello organizzativo rinnovato che preveda, oltre alla piena valorizzazione delle competenze professionali già presenti, anche l’apporto di altre figure professionali esperte nel campo dello studio e del trattamento del disagio sociale.
Mariantonietta Cerbo
SocialNews- La filosofia della pena
centralità della persona
Ciò che è importante e a cui si deve tendere è creare dei presupposti di vita sociale necessari per accogliere e recuperare seriamente gli autori di reato in un vero processo di cambiamento, tale da modificare le condizioni che precedentemente avevano favorito le azioni criminose che hanno determinato la sanzione ovvero la condanna.
Nel corso dell’evoluzione legislativa del settore penitenziario italiano, è mutato totalmente il significato dell’istituzione “carcere”. I contenuti insiti nell’Ordinamento penitenziario (L. 354/75), con le successive modificazioni, la riforma e le riforme delle riforme, hanno introdotto un insieme di principi e valori nel sistema penitenziario riformando in termini rivoluzionari il significato dello stesso carcere, arricchendo di contenuti il termine sanzione e trasformando in maniera sostanziale l’esecuzione penale esterna. Il carcere assume un’ottica diversa nel nuovo contesto sociale. Non è più concepito quale mero controllo basato su principi custodialistici e di sanzione fine a se stessa, ma si identifica quale sistema di intervento volto alla prevenzione attraverso processi trattamentali di recupero, individualizzati nei confronti dei soggetti condannati.Questo valore, contenuto nelle norme, chiama in causa tutti gli operatori penitenziari ed i servizi dislocati sul territorio, pubblici e privati, affinché l’operatività degli uni e l’attività degli altri confluisca nella realizzazione degli obiettivi che si identificano nel processo di recupero e reinserimento dei condannati. Il raggiungimento dei risultati, rispetto al nuovo contesto legislativo, nella sua evoluzione trentennale ha sempre più fortificato un duplice aspetto afferente alla punizione-sanzione ed al recupero-reinserimento. Pertanto, nella detenzione e nella libertà, per i condannati, il processo d’intervento aderente al dettato normativo deve contemplare sia la sicurezza - garantendo l’adempimento del controllo in virtù della pena comminata rispetto alle regole stabilite -, sia il trattamento, che deve essere assicurato al soggetto attraverso attività di recupero intramurarie, propedeutiche al suo percorso extramurario, nonché attraverso programmi individualizzati volti unicamente al processo di reinserimento sociale del soggetto condannato.
La filosofia della pena oggi ha un significato diverso. Ha in sé un contenuto olistico, in virtù dell’interprofessionalità agente nell’azione penale stessa; ha un significato giuridico-sociale; ha un significato rigenerizzante perché si attua innovativamente attraverso processi di cambiamento per progetti d’intervento; ha un significato preventivo perché il fine è di restituire alla società una nuova persona, che è cambiata perché ha modificato il suo comportamento attraverso la maturazione di una scelta di vita, di condivisione di un progetto che ne ha favorito l’autodeterminazione. Si tratta, dunque, di azioni dirette di coinvolgimento istituzionale partecipe e consapevole dei bisogni rappresentativi dei soggetti autori di reato che, in esecuzione di condanna, devono essere considerati parte inclusa nella società che si governa.
Ciò che è importante e a cui si deve tendere è creare dei presupposti di vita sociale necessari per accogliere e recuperare seriamente gli autori di reato in un vero processo di cambiamento, tali da modificare le condizioni che precedentemente avevano favorito le azioni criminose che hanno determinato la sanzione ovvero la condanna. La norma stabilisce che il trattamento rieducativo “deve tendere anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale dei condannati”. Prevede la partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa e tutto l’impianto giuridico è impostato e proiettato al reinserimento sociale dei condannati. Sono previsti specifici interventi dell’Ente locale all’interno e all’esterno del carcere, in favore dei soggetti in espiazione di pena, con finalità di assistenza e di formazione professionale degli stessi. L’Ordinamento penitenziario prevede, inoltre, interventi dell’Ente locale in relazione all’assistenza alle famiglie dei detenuti e ai condannati stessi durante le misure alternative o come assistenza post-penitenziaria.
Tali indicazioni vanno integrate con le competenze già attribuite all’Ente locale, il quale deve svolgere interventi finalizzati alla prevenzione sociale della criminalità e delle situazioni di degrado. È quindi necessario che le azioni siano rivolte a porre in atto interventi che colgano i primi sintomi del disagio per eliminare le eventuali patologie latenti e gli squilibri di carattere economico-sociale che possano fungere da incentivi alla messa in atto di comportamenti devianti e criminali. La prevenzione può essere attuata mediante l’organizzazione e l’erogazione di risorse e servizi da offrire alla comunità sociale. Le risorse del volontariato, spesso conferite dagli Enti locali e dalla Regione, costituiscono un grande aiuto per i progetti rivolti ai condannati, frequentemente l’unica possibilità alternativa alla condanna in detenzione.
Le associazioni di volontariato, dunque, quale giusta risposta di un circuito penale esterno che ha assicurato e assicura risultati di integrazione sociale soddisfacenti. Un’entità presente in tutto il territorio nazionale, attiva e prolifera di iniziative sempre più adeguate ad affrontare le problematiche dell’esecuzione penale esterna. La finalità principale del diritto penitenziario è la prevenzione della criminalità e, dunque, della recidiva. Questo sta a significare che la pratica professionale di tutti gli operatori di settore - da quelli della giustizia agli enti istituzionali e del privato sociale - è mirata alla prevenzione, oltre che all’accoglienza fine a se stessa. L’impegno è rivolto esclusivamente alla cura dei progetti di reinserimento dei soggetti condannati, sia detenuti sia in libertà. Ciò che importa è tenere ben presente la vulnerabilità dell’utenza a cui è rivolto l’intervento, che si basa sul principio di centralità della persona nel processo d’aiuto.
Rossana Carta