L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

Dal 2007 al 2014 sono stati pubblicati più di 1300 documenti che hanno trattato argomenti riferiti al Servizio Sociale della Giustizia, agli Uffici per l'Esecuzione Penale Esterna, al Sistema dell'Esecuzione Penale Esterna attraverso solidarietaasmilano.blocspot.com

martedì 29 gennaio 2008

GARANTI DEI DIRITTI DEI DETENUTI


Coordinamento dei Garanti Regionali, Provinciali e Comunali dei diritti delle persone private della libertà
Bologna, 29 gennaio 2008
Si è tenuta la riunione dei Garanti regionali, provinciali, comunali fin qui costituiti dei diritti delle
persone private della libertà. Erano presenti i garanti della Regione Lazio, dei Comuni di Roma, Brescia, Torino, Reggio Calabria, Bologna e delle Provincie di Milano e Lodi.
I Garanti hanno espresso la propria preoccupazione per gli sviluppi della crisi politica che rischia di trasformarsi In crisi della legislatura con ripercussioni gravissime sulla situazione della Giustizia, comportando necessariamente il blocco di tutte le iniziative legislative all’esame del Parlamento.
Decidono pertanto di rinviare, in attesa degli sviluppi e degli esiti della crisi di governo, gli appuntamenti che erano stati previsti per sensibilizzare il parlamento ed il governo sulle questioni concernenti la riforma del sistema penale e di prendere, nell’esercizio delle proprie funzioni le seguenti iniziative:
• un passo ufficiale Dresso il Capo del Dap, dott. Ettore Ferrara, per ottenere per tutti i Garanti,l’autorizzazione all’ingresso negli istituti di pena sulla base dell’art. 117 del Regolamento dell’Ordinamento penitenziario e non più soltanto sulla base dell’art. 17, quale riconoscimento del lavoro svolto in tutte le realtà in cui esiste tale Istituzione, tenendo conto che tra i provvedimenti bloccati dalla crisi di Governo c’è anche il Pdl di modifica dell’art. 67 dell’Ordinamento Penitenziario presentato dal presidente della Commissione Giustizia del Senato, Sen. Salvi. I Garanti coinvolgeranno in questa richiesta gli organi delle Regioni dei Comuni e delle Province che li hanno istituiti e nominati;
• la richiesta ufficiale al Comitato Europeo per la prevenzione della tortura di prevedere una inchiesta e un monitoraggio sull’applicazione dell’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, in considerazione dell’ampio ricorso che di questa misura 51 continua a fare nelle carceri italiane;
• la richiesta di un confronto con gli organismi del Dap sull’utilizzo e sulle ricadute che i regimidifferenziati AS (Alta sicurezza) e EICV (Elevato indice di vigilanza cautelare) hanno sul piano trattamentale:
• la richiesta a tutte le Regioni che non dispongono di Garanti regionali dei dirit1i delle persone private della libertà di provvedere con legge regionale alla istituzione di tale figura e la sollecitazione di una sua rapida entrata in funzione a quelle Regioni che hanno da tempo approvato la legge istitutiva e non hanno ancora proceduto alla costituzione dell’Ufficio e alla nomina del Garante. L’istituzione ovunque del Garanti regionali potrebbe riempire almeno inparte il vuoto rappresentato dal blocco, a causa della crisi di Governo, della legge istitutiva del Garante nazionale;
• la richiesta di un confronto e la promozione di un convegno con l’associazione nazionale dei Giudici di Sorveglianza sulla funzione della figura del Garante, sull’esecuzione della pena el’applicazione delle misure alternative al carcere, previste in attuazione dell’art. 27 della Costituzione.
I Garanti hanno altresì deciso di:
• intensificare lo scambio delle rispettive esperienze al fine di utilizzare i risultati positivi di progetti andati a buon fine e favorirne la realizzazione anche in altre realtà;
• formalizzare la costituzione del Coordinamento dei Garanti, dopo questo primo periodo dipositiva sperimentazione;
• designare come coordinatrice per il 2008 l’avv. Desi Bruno, garante del Comune di Bologna.
Avv. Desi Bruno

Adnkronos

Osapp; un Commissario straordinario per le carceri

29 gennaio 2008

Gli arresti operati oggi in diverse operazioni della polizia "devono rimettere all’ordine del giorno la questione carceri e del sovraffollamento". Lo afferma il segretario Generale dell’Osapp, Leo Beneduci, sottolineando che oggi sono entrate nelle carceri italiane "più di 150 persone".
"La società - spiega Beneduci - si preoccupa della sicurezza; adesso è la questione cardine su cui tutta la politica pone attenzione. Ma forse non ci si rivolge mai agli effetti che ciò produce in strutture che non sono più idonee, né in termini di capienza né in termine di sicurezza interna ed esterna ad accogliere nuovi soggetti".
"L’Amministrazione Penitenziaria in questi ultimi tempi ha segnalato in più di un’occasione quello a cui andremo incontro tra 4/5 mesi - sottolinea Beneduci -. Ma sembra che il problema principale sia mettere dentro chi ha commesso i reati, come se si potesse buttare la chiave senza tenere conto delle condizioni di chi dal carcere, prima o poi, esce e dimenticando nello stesso tempo gli effetti che può portare, alla società ed al Paese, il tenere dentro persone in condizioni disumane".
"Il termine discarica sociale non lo abbiamo coniato noi. Forse è giunto il momento di nominare anche per il fallimentare sistema penitenziario italiano un Commissario Straordinario".
Giustizia: Osapp; sì alle riforme, perplessità sul "braccialetto"

In materia di giustizia e carceri "gli interventi devono essere radicali: servono riforme urgenti per la "discarica sociale", come ha tenuto a sottolineare Eurispes nel suo rapporto annuale, ed è per questo che avvertiamo uno strano clima di riscatto delle forze che fino adesso sono state all’opposizione". Così in una nota il segretario Generale dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma di Polizia penitenziaria) Leo Beneduci.

"Per dirla in modo chiaro - sottolinea Beneduci - pensiamo che le elezioni, che da più parti vengono auspicate, siano l’alternativa sbagliata a ciò che più urge per il Paese e per la società che rappresentiamo. Affrontare una nuova tornata elettorale sarebbe un disastro per le carceri".
"Quello che serve è un diverso modo di pensare alla logica detentiva, che non si basi più sui numeri, o che quei numeri li possa leggere in chiave di risposta e non di allarme. È apprezzabile, infatti, il piano pluriennale varato dall’Amministrazione per l’espansione ed il rafforzamento dell’edilizia carceraria, ma - lamenta l’Osapp - 7.385 nuovi posti non sono nulla contro un tasso di crescita della popolazione carceraria di mille unità al mese".

"Per quanto riguarda la sperimentazione, come il braccialetto proposto dal Dap siamo perplessi su gli effetti risolutivi dell’esperimento annunciato, perché‚ - prosegue Beneduci - pensiamo che in questo si celi la cultura di chi vuole tenere in carcere, con l’unica finalità di nascondere alla società civile, ciò che è considerato marcio ed irrecuperabile: quasi a voler applicare antiche e desuete concezioni di lombrosiana memoria, lasciando però fuori gli affidabili".

"Ribadiamo fortemente che le riforme che noi intendiamo servano adesso, e non sono possibili tra tre mesi. Tra tre mesi - conclude il segretario generale dell’Osapp - il sistema sarà veramente al collasso, e nel frattempo, non si potrà far fronte ad una emergenza che un Governo sfiduciato, e obbligato dall’ordinaria amministrazione, può normalizzare".

SPAZIO: PENSIERI LIBERI

Carcere- Bmw, Porsche e braccialetti elettronici Cosa se ne fanno al Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, di 36 auto Bmw 330i e 2 Porsche Cayenna?
martedì 29 gennaio 2008, di Adriano Todaro -http://www.girodivite.it/

Cosa se ne fanno al Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, di 36 auto Bmw 330i e 2 Porsche Cayenna? Bella domanda. Difficile da rispondere anche perché il Guardasigilli non c’è più. Le Bmw di grossa cilindrata sono state assegnate ai Provveditorati regionali nella misura di 2 ogni provveditorato. Le Porsche Cayenna, blindate, sono finite a Roma. Secondo la denuncia di Giampietro Pegoraro, segretario regionale della Funzione pubblica-Cgil del Veneto, le auto sono state tutte prese in leasing per la modica cifra di mille euro al mese e tutte sottoutilizzate. Ogni mese, quindi, il ministero della Giustizia sborsa – solo per le Bmw perché non conosciamo i dati delle Porsche – 36 mila euro.
Come si vede nulla di nuovo. Continuano gli sprechi da una parte e i guadagni dall’altra perché, come abbiamo spesso ripetuto, il carcere, per molti, è un grande affare.
L’ex ministro Clemente Mastella ha dichiarato che è stato colpito perché dava fastidio. Non sappiamo se dava fastidio. Certo è, che non è cambiato nulla. Ogni mese, nelle carceri, entrano, come detenuti, più di mille persone. Le carceri sono sempre più piene e, quindi, più invivibili. I suicidi vedono protagonisti non solo i detenuti, ma anche gli agenti di polizia penitenziaria.
E non ci sono solo i suicidi. Secondo un rapporto della Simspe, la Società Italiana di Medicina e Sanità Penintenziaria, più della metà della popolazione carceraria, è affetta da svariate patologie. Aumentano i detenuti affetti da epatite C, molto pericolosa se consideriamo che una volta all’esterno, i detenuti potrebbero infettare familiari e amici. A questa si aggiunge un’altra malattia legata allo stress, la psoriasi, malattia cronica della pelle e poi, ancora, depressione e disturbi psicologici, problemi cardiovascolari e osteoarticolari.
Eppure, invece d’intervenire in questo campo, si acquistano inutili auto tenendo conto che i mezzi in dotazione alla Polizia penitenziaria sono obsoleti e inquinanti. Non solo. Le divise degli agenti arrivano con il contagocce e fuori misura. Addirittura, qualche tempo fa, sono arrivati giacche a vento con le mostrine della Polizia di Stato e non della Polizia penitenziaria e, quindi, sono state ritirate.
In compenso il ministero ha deciso di ripartire con la sperimentazione del controllo a distanza, quello dei braccialetti elettronici. Per fortuna la sperimentazione si farà solo a Milano e non, come nel passato in diverse città italiane. Saranno 400 i braccialetti sperimentati su altrettanti detenuti e l’auspicio è che possa funzionare meglio di sette anni fa.
In quel periodo, nel 2000, ministro della Giustizia Piero Fassino, un decreto legge del 24 novembre prevedeva l’uso dei braccialetti elettronici o meglio delle cavigliere. Le misero in funzione, con molta calma, sette mesi dopo, il 2 maggio 2001 su 350 detenuti dando sicurezza a tutti che erano a prova di manomissione. Poche settimane dopo un colombiano agli arresti domiciliari si diede alla fuga e il 2 luglio 2002 un boss della mafia altrettanto, mentre era ricoverato per Aids all’ospedale Sacco di Milano.
I braccialetti ci costavano 30 euro al giorno di affitto. In realtà sembra non siano stati pagati del tutto visto che una delle ditte fornitrici, l’inglese On Guard Plus, aveva sospeso la fornitura perché, appunto, non veniva pagata.
Ora si riparte con 400 braccialetti. Non sappiamo quanto costeranno e se saranno a prova di manomissione. Con certezza, però, sappiamo che gli eventuali evasi saranno rincorsi con le Bmw 330i e con le Porsche Cayenna.
I reati calano? allora si devono costruire più carceri!
di Adriano Todaro

Per rimodernare gli alloggi e la mensa degli agenti penitenziari del secondo carcere milanese, quello di Bollate, mancano i soldi. E allora ci si affida alla pubblicità. Una convenzione è stata stipulata fra il Provveditore per le carceri della Lombardia, Luigi Pagano, e l’Alitalia. Sul tetto del carcere sarà posto un grande cartellone pubblicitario visibile dalla vicina autostrada Milano-Laghi.
A ben guardare, questo episodio è sintomatico: l’Alitalia è un’azienda in fallimento che succhia soldi pubblici, il carcere lo stesso. Non tanto, ovviamente, quello di Bollate che è carcere modello e all’avanguardia, ma tutto il settore che riguarda le carceri. Finito l’effetto indulto, ricomincia la paralisi. Oggi nei 218 istituti di pena ci sono oltre 49.442 detenuti a fronte di 43.213 posti disponibili. Ogni mese entrano in carcere 1.000 persone. Se questo trend continuerà, fra poco, in primavera, i detenuti saranno più di 60 mila, come prima dell’indulto.
Le cause? Prima di tutto la recidività. È un sistema perverso: carcere - libertà - carcere. La percentuale media di chi ritorna a delinquere, e ritorna in carcere, è attorno al 70 per cento. Quando si esce se non si trova una situazione solidale, se non si trova il lavoro, un alloggio, se si è messi all’indice, malgrado si sia pagato il "debito con la giustizia", si ritorna a delinquere. Gli stessi parlamentari che hanno votato favorevolmente per l’indulto (praticamente tutti), oggi sono contrari, sono pentiti, dichiarano che tutti i mali provengono dall’indulto.
I mezzi di comunicazione di massa fanno la loro parte nel fomentare le paure dei cittadini, nell’indicare nell’indulto la causa di tutti i mali. In realtà non poteva andare meglio di come è andata. Quando si aprono le celle e sul territorio non c’è o non si è voluta creare nessuna rete di protezione, è ovvio che si torni a delinquere. Afferma il sottosegretario Luigi Manconi: "Senza l’indulto noi saremmo a una cifra stimabile di circa 80 mila detenuti. Ovvero uno stato di totale illegalità, una situazione invivibile per quanti lavorano dentro le carceri, un inferno per i detenuti e, quindi, una situazione ad alto rischio, al limite di un possibile collasso o esplosione".
Poi c’è il problema degli stranieri. Fra il 1980 e il 1990, fra le persone in carcere, il 15 per cento erano stranieri. Oggi sono il 37 per cento, provenienti da 144 Paesi! Inutili le lamentele dei cittadini. Se non si farà in fretta a mettere mano alla vergognosa legge Bossi-Fini, le carceri saranno sempre più affollate di stranieri e, quindi, sempre meno vivibili.
Terzo punto i detenuti in attesa di giudizio. Su circa 50 mila detenuti, 29 mila e 137 persone sono in attesa di giudizio. Non sappiamo se resteranno in cella o saranno liberati. Intanto, però, contribuiscono al sovraffollamento. A tutto ciò è necessario aggiungere le emergenze vere o presunte (romeni, decreto sicurezza). Se è difficile mandare in carcere un potente, è facilissimo mandare in carcere persone senza potere, poveri, senza cultura.
Intanto i reati, nel nostro Paese, sono in calo. Negli ultimi sei mesi del 2007, i reati sono diminuiti di 145.043. Si è passati da 1.468.161 delitti, nel periodo gennaio-giugno, a 1.323.118 fra giugno-dicembre. Si uccide meno (nel 2006, 621 persone uccise; nel 2007, 593), ci sono meno reati legati agli stupefacenti, meno rapine (nel 2006, 50.270; nel 2007, 49.123. Negli ultimi sei mesi del 2007, 22.675 rapine), meno estorsioni, meno violenze sessuali (negli ultimi sei mesi del 2007, 2.057 a fronte delle 2.421 dei primi sei mesi dell’anno, meno scippi (nel secondo semestre 2006, 11.861; secondo semestre 2007, 10.439). L’unico settore che "tira" sono i furti negli appartamenti.
Eppure si progettano nuove carceri (sono dieci quelli in costruzione). E per cercare di dimostrare all’opinione pubblica di essere sensibili al problema, si scaricano le responsabilità della mancata costruzione da un ministero all’altro. E così Clemente Mastella dà la colpa ad Antonio Di Pietro e, quest’ultimo, la rimanda al destinatario. In realtà questo delle nuove carceri è solo fumo propagandistico. Prima di tutto perché per costruire un carcere ci vogliono in media 10 anni. E poi perché l’Italia è piena di carceri che non sono utilizzate. La trasmissione televisiva "Striscia la notizia" l’ha documentato in continuazione. Famoso è il caso del carcere di Gela (48 celle, tutte con i servizi igienici) che è stato progettato nel 1959, finanziato nel 1978, cantiere aperto nel 1982, ultimato mezzo secolo dopo e inaugurato dal ministro Mastella lo scorso 26 novembre.
Nel 2000, il governo aveva deciso di ristrutturare 214 carceri che abbisognavano di opere indispensabili per la vivibilità sia dei detenuti e sia degli agenti di polizia penitenziaria (negli ultimi 10 giorni dello scorso dicembre, ben quattro suicidi di agenti) e di chi nel carcere ci lavora. L’allora governo di centro-sinistra (Guardasigilli Oliviero Diliberto) aveva stimato un investimento di 400 milioni di euro e i tempi previsti per la realizzazione delle opere in 5 anni. Le ristrutturazioni dovevano riguardare, in particolare, le strutture igienico-sanitarie, tutte al di sotto degli standard europei: acqua calda nelle celle, toilette separate dalle cucine e dalle brande, celle per non fumatori, cucine per un massimo di 200 coperti ed altro.
Dopo sette anni, solo il 16 per cento delle celle sono a norma: 4.763 su 28.828 mentre 1.750 sono in via di ristrutturazione con casi come a Secondigliano dove nessuna delle 802 celle ha l’acqua calda e solo 11 hanno la doccia. In realtà mancano soprattutto i soldi. Forse verrà il tempo (Bollate docet) che le carceri per mantenersi dovranno fare pubblicità. Intanto le opere di ristrutturazione vanno al rilento e il segretario di uno dei sindacati autonomi degli agenti, il Sappe, dichiara: "Qui non c’è un soldo neanche per imbiancare le celle".

lunedì 28 gennaio 2008

korazym.org

Questo è carcere che non consente il cambiamento

28 gennaio 2008

Quotidiani e tv hanno cominciato a martellare sui tamburi della gran cassa mediatica, il rumore è sempre più assordante, come quando accade qualcosa che era stato ampiamente preventivato.
Le carceri si stanno nuovamente riempiendo, i detenuti stanno riconsolidando la percentuale di sovraffollamento precedente alla concessione dell’indulto. Come al solito siamo replicanti di noi stessi, incapaci di sostenere e ampliare una soluzione umana possibile, che poggi le fondamenta sull’esperienza.
Manca la legalità, non c’è sufficiente sicurezza, occorre costruire nuove galere, c’è bisogno di altre migliaia di operatori intesi come Polizia Penitenziaria, di interventi e di denaro. Effettivamente occorrono i denari, perché senza quelli non esiste possibilità di disegnare alcun progetto attuale e futuro, senza denari la teoria non configura alcuna pratica.
Senza dubbio c’è necessità di interventi, ma se questi sono una sottotraccia di ideologie da mercato, meglio non autorizzarne il passaggio mediatico, camuffandoli da interventi di grande autorevolezza politico criminale.
Possiamo redigere alti muri, edificare nuovi molok tra le nebbie, inasprire pene e sanzioni, moltiplicare per dieci i tutori dell’ordine, ma a quale scopo? Per vincere l’illegalità diffusa? Non è una cella oscura, una disciplina sciocca e feroce a far mettere in discussione il proprio vissuto a un detenuto, si otterrà l’esatto contrario, un ammaestramento che prima o poi deflagrerà.
Il carcere italiano ritorna all’invivibilità di sempre, non perché gli indultati non meritassero quella pietà, è sotto gli occhi di tutti la maturità raggiunta dalla stragrande maggioranza dei detenuti. Non è il carcere la soluzione a disfunzioni prettamente politiche, eppure ha ripreso a funzionare come una discarica abusiva, come una fabbrica di criminalità, in un paese dove le droghe la fanno in barba alle leggi, un paese che crede nella giustizia e nella legalità, finché queste due coordinate sociali non vanno a confliggere con i nostri interessi, attraverso una personalissima interpretazione della conformità alle regole.
Una verità conclamata sta nel sostenere che non è il carcere a poter risolvere le problematiche della giustizia e della sicurezza, anzi, confidando sulla sola capacità di intimidazione e violenza prisonizzante, si accentuano le condizioni per mantenere la persona detenuta a un tempo bloccato, al giorno del reato. Così facendo non esiste più l’uomo e la sua colpa, né la necessità di elaborare una rivisitazione del proprio vissuto, in prossimità di un vero mutamento interiore, per cui prevale il passaggio percettivo da carcerati a vittime, e in questa autoipnosi collettiva colpevolmente indotta, non c’è alcuna spinta alla compassione.
Nessuno o quasi si preoccupa di non fare fallire sul nascere qualsiasi progetto tendente al recupero della persona detenuta, superando la pratica della detenzione fine a se stessa, che mantiene colme le celle, senza favorire alcun auspicato cambiamento, in una esecuzione penale che riconosce come unico strumento di riordine il carcere.
Le celle si riempiono di lunghi monologhi di follia lucida, in un confine inteso come spazio e soglia di non appartenenza, un "prevaricamente" altro, specificatamente un luogo ove detenere-contenere i risultati di un disagio sociale galoppante, che non è sintesi di volontà criminale, di contrapposizione ideologica, bensì di marginalità e esclusione.

Comitato politico radicali di sinistra

9 proposte per riformare il Diritto Penitenziario
28 gennaio 2008

In un’Italia che sempre più spesso nei due grandi fronti del garantismo e del giustizialismo si schiera sulla base di presunte situazioni emergenziali, la riforma penitenziaria resta l’ennesimo nodo irrisolto, al pari della elefantiaca e forse non soddisfacente macchina statale, del sistema fiscale aspro senza rendere in capacità salariale e assistenza sociale e delle relazioni internazionali, non atte ancora a determinare un univoco indirizzo pacifista, nelle istituzioni europee e non solo. Non basterebbe molto, però, per migliorare la situazione:

prevedere (e rendere effettivo) un numero massimo di detenuti per cella, queste munite dei minimi servizi, allocati in modo riservato rispetto al plesso;

potenziare le strutture sanitarie e di assistenza medica all’interno dei penitenziari, sia per realizzare che malattie afflittive e spesso degenerative siano riconosciute e assistite per tempo sia per evitare che le condizioni di salute siano, come talora purtroppo accade, strumentalizzate per fini diversi dalla cura medica;

completare il sistema delle pene alternative, estendendone l’ambito applicativo, nel contesto di un più stretto rapporto con la magistratura di sorveglianza in generale e col concreto e singolo giudice dell’esecuzione penale;

incrementare le attività intra-carcerarie che promuovono la cooperazione tra detenuti e il rapporto di scambio e riadattamento col mondo esterno;

approvare un nuovo provvedimento di clemenza, unito all’amnistia, che depenalizzi di fatto le ipotesi di reato meno gravi e la cui pericolosità sociale risulti essere non avvertita se non quando quasi assente;

lavorare alla stesura di un nuovo codice penale e di un nuovo regolamento penitenziario che contemperi le esigenze di tutela dalla disgregazione sociale (microcriminalità, criminalità estera, affiliazione di soggetti economicamente e socialmente deboli e ricattabili) con le istanze costituzionali del regime penitenziario;

prevedere possibilità di soddisfazione per le minoranze etniche, religiose, linguistiche, razziali, attraverso l’assistenza spirituale e l’inibizione di pratiche discriminatorie;

ostacolare fattivamente (appunto grazie alle depenalizzazioni previste, o per merito della maggior attività di cura e tutela, oltre a ogni altra misura che si riveli idonea allo scopo) che il carcere diventi veicolo dell’estensione delle organizzazioni criminali tra soggetti intranei a strutture delinquenziali e tutti gli altri detenuti per diverse ipotesi;

adeguare le strutture penitenziarie, a livello e di edificazione e di vivibilità, a dei requisiti oggettivi di abitabilità, quali la salubrità, la summenzionata cura medica, l’attuazione dell’istanza rieducativa della pena. Il marchio di infamità che grava sulle galere e il mancato ritorno in termini di sicurezza sociale dipendono quasi completamente dal mancato raggiungimento di questi scopi
Domenico Bilotti
Comitato Politico dei Radicali di Sinistra

sabato 26 gennaio 2008

NEWS INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO



Adnkronos/IGN -


Genova Press


AGI


Libertà


Altravoce


L'Occidentale


Reuters Italia


AGI


Agenzia Giornalistica Italia


La Repubblica


Adnkronos/IGN


Il Tempo


Teleradioerre


Telereggio


Videocomunicazioni News

UGL Ministeri

Ugl- nelle carceri attività dall’alba al tramonto…
26 gennaio 2008

A poco più di un anno dall’approvazione del provvedimento di indulto, l’allarme sul sovraffollamento delle carceri è nuovamente suonato e giorno dopo giorno, i nostri istituti di pena si vanno riempiendo sempre di più, avendo già superato la soglia della capacità c.d. "tollerabile". D’altra parte, tutto ciò era largamente prevedibile, sulla scorta di quanto accaduto nel passato in occasione dell’emanazione di analoghi provvedimenti.
È di tutta evidenza quindi, che non si può risolvere il problema in questo modo, contribuendo tra l’altro (ma non è una conseguenza di poco conto) ad elevare il tasso di criminalità della società, immettendo nella stessa così tanti criminali che non hanno terminato di scontare la loro giusta pena: inoltre, e ci sembra altrettanto grave, si lancia un chiaro segnale di impotenza alle vittime dei reati ed ai cittadini onesti tutti, rinforzando nel contempo il senso di impunità negli autori degli stessi.
Insomma, l’indulto è stata la classica cura assai peggiore del male che avrebbe dovuto curare. In realtà, profondamente diversa dovrebbe essere la strada da percorrere per riformare il carcere e renderlo, per quanto possibile, vicino a quel modello di struttura rieducativa e riabilitante che la norma vorrebbe. In primis, bisognerebbe garantire il lavoro a tutti i detenuti, per sottrarli all’ozio totale che è il peggior nemico di ogni progetto di reinserimento: soltanto il lavoro, con l’impegno ed il senso di responsabilità che richiede, può avere una valenza trattamentale e rieducativa.
Lavoro retribuito, secondo i parametri stabiliti dall’ordinamento penitenziario, concependo due circuiti netti e distinti: lavoro all’interno del carcere per i detenuti più pericolosi e per i quali non è ipotizzabile un reingresso anticipato nella società, e lavoro all’esterno per gli altri, con impiego in lavori di pubblica utilità, con prescrizioni ed obblighi più o meno stringenti a seconda delle diverse situazioni, disciplinati dai diversi regimi previsti dalle diverse misure alternative alla detenzione.
All’interno del carcere poi, una giornata organizzata dall’alba al tramonto, con attività sportive, ricreative e culturali da integrare al lavoro di cui si è detto. Tutto questo, lo sappiamo bene, richiede grandi sforzi soprattutto economici, investimenti massicci in risorse, strutture e personale: ma non possiamo accettare che il leit motiv della carenza di risorse, giustifichi lo sfascio di questa istituzione, fondamentale per ogni società che si voglia definire civile, così come ricordava il Mahatma Ghandi, che affermò come il grado di civiltà di una Nazione si misura dallo stato delle sue carceri.

Unione Generale del Lavoro
Coordinamento Nazionale Giustizia
Il Segretario Nazionale, Paola Saraceni

Il Manifesto

Gonnella- sulle riforme mancati forza e coraggio
26 gennaio 2008

Il giudizio complessivo di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, sul Governo di Prodi, è positivo ma non troppo. "Una legislatura cominciata in modo coraggioso con l’approvazione dell’indulto a cui però non è seguita una vera stagione di riforme in ambito penale, assolutamente necessaria. È mancata la forza e il coraggio per farla. Ed è un peccato visto che sul programma elettorale dell’Unione tutto questo era previsto.
Eravamo a buon punto su due testi di legge, già approvati alla Camera. Quello che prevede l’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento e un altro che introduce la figura del garante nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale. Leggi che adesso salteranno inevitabilmente e si dovrà ricominciare tutto daccapo.
Decisamente negativo invece è il giudizio sul cosiddetto "pacchetto sicurezza", voluto con forza da alcuni sindaci del Pd e amplificato dalla stragrande maggioranza dei media nazionali. Ed è stato avvilente tutto il dibattito che ne è seguito e che ha fatto fare al nostro paese parecchi passi indietro dal punto di vista culturale".

Social news

Gennaio 2008
Prevenire la criminalità. Le radici della delinquenza

Le esperienze traumatiche possono incidere pesantemente in quelle scelte di vita che alla fine si rivelano sbagliate, deleterie per chi le attua. La prevenzione andrebbe fatta attraverso una maggiore preparazione scolastica o professionale per migliorare l’accesso al mondo del lavoro, contrastando le cause dell’abuso di stupefacenti e quelle di una crescente povertà

è fuor di dubbio che le cause che di solito spingono una persona a compiere un crimine possano essere molteplici. Tuttavia, non escludendo la possibilità di scelte individuali “professionali” nel campo della delinquenza, ritengo siano predominanti fattori socio-economici quali la povertà, la mancanza di lavoro, il basso livello di istruzione, la tossicodipendenza e, non da ultimo, il contesto di provenienza, spesso caratterizzato da notevole multi problematicità. Abbandono o perdita di almeno un genitore in età infantile, alcolismo e violenze in ambito familiare, possono tutte essere esperienze a tal punto traumatiche da incidere pesantemente in quelle scelte di vita che alla fine si rivelano sbagliate, deleterie per chi le attua. La delinquenza ha quindi una serie di motivazioni diverse alle spalle, e proprio per questo motivo diversi sono gli interventi che potrebbero contribuire a prevenirla o perlomeno a limitarla. Innanzi tutto si dovrebbe far leva su una maggiore preparazione scolastica o professionale affinché sia possibile consentire un migliore accesso al mondo del lavoro, anche attraverso il raccordo fra le Istituzioni scolastiche e formative e l’imprenditoria. Seconda cosa andrebbero contrastate le cause che molto spesso portano i giovani ad abusare di sostanze stupefacenti come, d’altro canto, andrebbero contrastate pure le cause che portano ad una sempre più crescente povertà. Un’opera preventiva adeguata dovrebbe tener conto anche, e forse soprattutto, della diffusione di sani valori morali per cui il grado di appagamento individuale non discenda dal possesso di beni materiali, ma da un apprezzato inserimento nel contesto sociale. Proprio in merito al contesto sociale, altro punto assolutamente non trascurabile ai fini preventivi riguarda l’inserimento sociale degli immigrati ed il loro contenimento numerico entro i limiti in cui l’inserimento stesso sia realizzabile. Gli stranieri sono una realtà del nostro Paese alla quale non si può non fare attenzione. Una realtà che spesso si confronta con il carcere. Al momento sono 26 su un totale di 251 elementi, i detenuti extracomunitari di diversa provenienza geografica che stanno scontando la loro pena presso la Casa di reclusione di Rebibbia. Sebbene vi sia anche qualche cittadino dell’Unione Europea, perlopiù si tratta di persone originarie dei Paesi del Magreb e Africa equatoriale, Europa dell’Est e Sud America. Al contrario di quanto si potrebbe essere portati a pensare, tra i detenuti italiani e quelli immigrati non si riscontrano particolari problemi di convivenza. Se le giornate scorrono senza grosse scosse, ciò è con una certa probabilità da attribuirsi al fatto che le camere di detenzione sono quasi tutte singole, il che consente a ciascuno dei presenti di mantenere le proprie abitudini comportamentali, alimentari e religiose senza suscitare disappunto reciproco. In ogni caso, è corretto precisare che non si registrano intolleranze nemmeno durante le attività in comune, attività che coprono una fascia oraria piuttosto ampia che va dalle ore 8 alle ore 22.30. Tuttavia, al di là del fatto che non si manifestano conflitti interni, la vita in carcere, ne sono consapevole, comporta delle ovvie difficoltà. Proprio per questo motivo sono solito esporre sempre ai detenuti la mia sollecitazione per cui la detenzione, breve o lunga che sia stata, deve rappresentare solo una parentesi nella vita dell’individuo. Una parentesi da chiudere definitivamente con la scarcerazione, evitando di incorrere in ulteriori comportamenti devianti che, qualora non restino impuniti, conducono inesorabilmente un’altra volta in carcere. A tal proposito va comunque sottolineato che per coloro che hanno subito e scontato una condanna risulta cosa tutt’altro che semplice reintegrarsi nella Società. In effetti sono pochi quei soggetti che terminata la pena possono contare su percorsi di reinserimento sociale. Percorsi che, precisiamolo, vengono prevalentemente offerti dal mondo delle cooperative e dal no-profit. La gran parte degli ex carcerati rientra, purtroppo, nel contesto di provenienza senza concrete opportunità, in primis lavorative, che possano favorire il cambiamento dello stile di vita e va da sé che proprio a causa delle difficoltà che incontrano, corrono il rischio di trovarsi di nuovo in una situazione in cui la via della delinquenza pare essere la più semplice o perlomeno l’unica possibile.

Stefano Ricca
direttore della casa di reclusione roma rebibbia

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Gennaio 2008
Il ruolo di chi in prigione lavora. Dimenticati dietro le grate

La sensazione sempre più ricorrente per molti direttori di penitenziario è che il carcere rappresenti, ormai, il burka istituzionale della Legge penale e del suo ordinamento. Sembra che ci si sia scordati che oltre le sbarre e le mura delle galere vive e si muove un’umanità che non è costituita soltanto da detenuti, ma anche da operatori penitenziari

Eccomi qua, a parlare di carcere e di sicurezza, così come chiestomi. Parole le mie “in libertà”, quale migliore contraddizione con il lavoro che faccio! Attraverso il “Social News”, sprucidamente riprendo quello che vado affermando da qualche tempo, provo a lanciare un grido di dolore e di speranza insieme. Profittando di questo osservatorio privilegiato destinato a chi creda, o perlomeno finga di credere ancora, nel sociale; l’assioma è il seguente: gli operatori penitenziari si sentono sempre più abbandonati a se stessi e la funzione penitenziaria viene sostanzialmente tradotta in attività “contenitiva”.
La sensazione per molti direttori penitenziari, sempre più ricorrente, è che il carcere rappresenti, oramai, il BURKA istituzionale della Legge penale e del suo ordinamento: sembra, infatti, che ci si sia dimenticati che dietro le grate e le mura delle prigioni vive e si muove un’umanità che non è costituita soltanto da detenuti, ma anche da operatori penitenziari, molti dei quali, allorquando fecero tale scelta professionale, la ritennero nobile, alta, apprezzata dalla società civile che da sempre, soprattutto in Italia, si bea nell’affermare che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e che il trattamento penitenziario deve essere rispettoso della dignità umana (art. 27, comma 3° della Costituzione…).Come per il BURKA delle donne Afgane, che ai tempi dei Talebani dovevano pagare il prezzo sociale e religioso della loro differenza di genere con gli uomini, barbuti e disinteressati ai libri che non fossero quelli della Parola, affinché la loro discrezione fosse tutelata, così le grate oggi assomigliano alle celate che dovrebbero difendere la persona umana, detenuta, dalla sua stessa responsabilità, mostrandosi tra l’altro persona “obbediente” verso chi rappresenti l’autorità…; in realtà il BURKA PENITENZIARIO, come quello al quale sono costrette molte donne dei paesi musulmani, serve per nascondere l’assoluta mancanza di sincero interesse sia verso i detenuti che verso quegli operatori penitenziari, i quali dovrebbero spendere le loro migliori risorse per fare rieducazione e sicurezza, sicurezza duratura. Pensate che lo stato delle carceri è così povero di risorse che, recentemente, sono stato costretto a partecipare a dibattiti e conviviali, l’ultimo quello di un Rotary della Provincia di Trieste, chiedendo in cambio, come “service”, il regalo di cessi, non in senso figurato, ma veri e propri, quelli di ceramica, in quanto non abbiamo fondi ricorrenti e sufficienti per acquistarne dei nuovi in sostituzione di quelli che vengono demoliti e danneggiati da detenuti che hanno crisi psichiatriche, o che protestano contro tutti e tutto demolendo le loro celle per mostrare quanta rabbia abbiano in corpo.

Come segretario nazionale del SIDIPE-CISL, sindacato maggiormente rappresentativo dei direttori penitenziari, raccolgo le lamentele arrabbiate dei colleghi di mezz’Italia che denunciano l’assoluta insufficienza delle risorse umane e materiali messe a disposizione; nel primo caso mi riferisco agli educatori, agli psicologi, agli appartenenti al Corpo della Polizia Penitenziaria. In certe ore della giornata, non ci crederete, le carceri sono desolatamente vuote, deserte di personale penitenziario…Le ragioni sono tante, non ultime quelle di una, per me, cattiva e non comprensibile distribuzione delle risorse umane…, farò degli esempi. Trovo personalmente scandaloso che vengano distratte risorse umane di polizia penitenziaria perché vengano impegnate nelle decine di bar aziendali presenti in molti istituti di pena, nelle numerose scuole di polizia penitenziaria. Questi ultimi sono dei veri inni all’inutilità, dal momento che poi non si provvede annualmente ad assumere altri agenti od operatori penitenziari e che anche l’attività di aggiornamento e formazione che viene svolta, appare residuale rispetto alla portata dell’apparato. Come un vecchio mio amico sacerdote, di quelli di “battaglia”, che aveva girato tutto il medioriente, amava dire: “queste strutture di formazione vuote di allievi ma piene di personale, in particolare di polizia ed amministrativo, anche educativo (che ci farà mai un educatore in una scuola di formazione del personale dove non ci sono detenuti???) sono come la mitra dei sommi sacerdoti, l’estensione del nulla…”.Considero, ad esempio, irragionevole che gli agenti di polizia vengano impegnati negli stabilimenti balneari dell’amministrazione penitenziaria mentre i detenuti sono abbandonati a sè stessi nelle carceri, con tutti i rischi che ne possono derivare. Trovo comico che invece di spendere risorse per mettere a norma le carceri, i posti di lavoro, fare la manutenzione ordinaria delle strutture penitenziarie, noi si vada a finanziare le unità della polizia penitenziaria a cavallo, partecipando a tornei ippici o altro; non mi interessa, come operatore penitenziario e ancor di più come direttore di un carcere, poter ammirare la plastica figura del cavaliere della polizia penitenziaria che si fregi di una coppa vinta ad una competizione equestre…Non mi interessano i tornei di calcio di promozione e le gare di vasca corta, alle quali partecipano tante unità di polizia penitenziaria che, comunque, fanno numero e consentono poi di affermare che il Corpo è ricco e numeroso di risorse umane. Nessun campione di atletica leggera potrà mai intervenire, all’interno di una cella sovraccarica di detenuti stipati in letti a castello, per salvare la vita ad un detenuto che tenti d’impiccarsi, o impedirà il tentativo di evasione di uno scaltro delinquente. Non saranno i ciclisti dei baschi azzurri a trasportare un detenuto da un carcere all’altro, da un tribunale all’altro.Potrei fare mille esempi, ma potrei spingermi a dire cose irripetibili. Mi limiterò pertanto a rientrare nei ranghi, ricordando che molti poliziotti penitenziari sono impegnati in compiti amministrativi presso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria: credo che neanche a Roma sappiano quanti sono. Se si ponesse il quesito ai SUPER DIRIGENTI, scommetto il mio stipendio di un mese (di più non posso…) che si avrebbero risposte diverse e numerose quanti gli interrogati.

Molti esterni che avessero la ventura di entrare nei santuari amministrativi dell’amministrazione penitenziaria non si accorgerebbero di questa presenza abnorme perché, come ho avuto modo di dire allo stesso capo del Dipartimento recentemente, questi agenti non indossano l’uniforme, bensì abiti borghesi… se vestissero l’uniforme gli uffici ministeriali sembrerebbero delle caserme sudamericane, tanta polizia è presente! Le lettere che mi pervengono dai colleghi confermano la mia triste convinzione che ormai vengono dettate norme che si percepiscono di facciata, sapendo bene che sono inapplicabili in quanto richiederebbero risorse umane e strumentali che non vengono contestualmente concesse. è cose se il marito di un tempo, dell’Italietta povera anche di emancipazione, ogni giorno ordinasse un pasto ricco alla moglie, precisando anche i sapori che vuole gustare, senza però lasciare sul comodino i “bori”, le banconote fruscianti, per fare la spesa. Le carceri dovrebbero essere viste da tutti i cittadini interessati, soprattutto di notte, quando più forte è il senso di inquietudine e di solitudine che prende sia i detenuti che gli operatori. In carcere non si dorme mai, di giorno infatti sono svegli i detenuti comuni, di notte lo sono quelli tossicodipendenti che implorano dosi ulteriori da cavallo di psicofarmaci, oppure quelli con problemi psichiatrici: bella idea, hanno chiuso i manicomi ma hanno ingolfato le carceri. Da qualche tempo indico il carcere come il mappamondo di ferro, dove le parallele e le meridiane sono fatte di grate, e dove la lingua parlata è l’esperanto penitenziario. Eppure qui dovrebbero lavorare i migliori specialisti del trattamento, educatori, psicologi, h. 24, dovrebbe essere costantemente alimentata ed incentivata la motivazione professionale: invece nulla, i pochi agenti devono inventarsi competenze che non hanno e quanti, come me, credevano che essere direttori di un istituto penitenziario fosse la migliore espressione di una cultura giuridica non pietosa ma mite, non muscolosa ma umana, che non perdona ma neanche maltratta, si sentono presi in giro, ingannati da un sistema che preferisce manganellare i cittadini inerti che protestano per le immondizie nei quartieri popolari napoletani e, nel contempo, tirare a lucido le zone belle della città dei potenti, protette da manipoli di poliziotti, semmai anche penitenziari.
Parole crude le mie? Pensate quello che volete ove non abbiate la voglia di verificare. La mia giornata, e quella dei miei collaboratori, infatti, non risulterà più leggera o pesante seppure quanto ho scritto non vi garbasse.

Enrico Sbriglia
segretario nazionale del si.di.pe.
(sindacato dei direttori e dirigenti penitenziari)

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Gennaio 2008

Gli operatori delle strutture penitenziarie. Non carcerieri ma personale specializzato

L’Istituto Superiore di Studi Penitenziari è la scuola nazionale per la formazione, l’aggiornamento e la specializzazione dei dirigenti amministrativi e tecnici dell’Amministrazione penitenziaria, dei ruoli direttivi e dirigenziali del Corpo di Polizia Penitenziaria, dei funzionari di area

La delinquenza è una piaga che da sempre caratterizza la nostra società, ma che oggi, in particolare, è in preoccupante aumento. La diffusione di comportamenti antisociali è sempre più percepita da parte dei cittadini come un’emergenza che determina un forte stato di insicurezza. Nel corso degli anni sono stati molti gli studi che si sono posti l’obiettivo di ricercare le cause di tale disagio, diffuso soprattutto tra i giovani e gli adolescenti. La mancanza di valori e di punti di riferimento, le disfunzioni dell’ambito domestico, il rifiuto delle regole della vita collettiva, la disoccupazione, l’emarginazione portano a conflitti familiari o, nel peggiore delle ipotesi, a condotte devianti o più propriamente delinquenziali. La famiglia, in primis, la scuola e le istituzioni in generale hanno l’importante compito di educare alla legalità, ma prima di tutto di educare. Le forze preposte a tale compito presenti sul territorio devono combattere la resistenza all’educazione, eliminando le cause di tali comportamenti e non agendo solo a posteriori. è necessario esaminare e valutare ogni iniziativa utile ad eliminare sul nascere gli eventuali focolai di criminalità. Attraverso un’efficace azione di cooperazione, in particolare tra le forze di polizia, si possono, quindi, realizzare concreti interventi di controllo e monitoraggio del territorio, con l’obiettivo ultimo di attenuare la percezione del rischio da parte dei cittadini. Il sistema carcere è una realtà complessa, di non semplice gestione, affidataria di una delicata missione. Gli operatori che, quotidianamente, si trovano ad operare all’interno delle strutture penitenziarie sono chiamati a svolgere delicati compiti istituzionali, caratterizzati da una notevole implicazione sociale. Una formazione iniziale specifica, unitamente ad aggiornamenti mirati in itinere, rappresentano lo strumento principale per adeguare le competenze e garantire, al meglio, la risoluzione delle criticità in ambito penitenziario.

L’Istituto Superiore di Studi Penitenziari è la Scuola Nazionale per la formazione, l’aggiornamento e la specializzazione dei dirigenti amministrativi e tecnici dell’Amministrazione Penitenziaria, dei ruoli direttivi e dirigenziali del Corpo di Polizia Penitenziaria, dei funzionari di area C. Fulcro dei compiti istituzionali dell’ISSP è, quindi, la funzione formativa alla quale sono strettamente correlate altre attività, quali lo sviluppo di modelli di organizzazione del trattamento penitenziario dei detenuti e degli internati, la valorizzazione delle migliori esperienze nel settore penitenziario e l’approfondimento della cultura giuridica penitenziaria, la ricerca e lo studio sulle problematiche penitenziarie. Importante, infine, il ruolo svolto da questo Istituto, anche a livello europeo, nel settore della ricerca, in collaborazione con le Università e con le agenzie di formazione specializzate, sia nell’ambito del trattamento penitenziario che nello sviluppo di modelli organizzativi e di gestione coerenti con il processo di innovazione della Pubblica Amministrazione. Nell’ambito delle competenze dell’ISSP rientra, inoltre, la gestione di progetti- obiettivo con finanziamenti del Fondo Nazionale per la lotta alla droga. In questo quadro e con riferimento alla formazione in azioni di ricerca-intervento, si colloca il “Progetto Stranieri e droghe”, promosso dalle diverse Direzioni Generali del DAP e coordinato dalla scrivente. Tale iniziativa si può ritenere significativa per la particolare attenzione dedicata ad un argomento di grande attualità e che riflette il contesto nel quale la maggior parte degli operatori penitenziari quotidianamente operano. La prima fase del progetto è stata caratterizzata da una attività di ricerca svolta con metodo scientifico, in collaborazione con la Facoltà di Psicologia dell’Università di Padova, volta a rilevare i numerosi aspetti connessi alla gestione dei soggetti stranieri detenuti. Il contesto di indagine, oltre al territorio italiano, ha coinvolto anche il territorio europeo, muovendo l’analisi in Inghilterra e Galles, Francia, Germania e Belgio, quindi in Paesi caratterizzati per una forte tradizione di immigrazione. Successivamente è stato realizzato, presso questo Istituto, un periodo di formazione ad hoc che ha previsto anche un supporto di consulenza per la elaborazione e l’implementazione dei progetti locali a favore di detenuti stranieri da realizzare, con finanziamenti a carico del progetto, in 9 istituti penitenziari e in 1 Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna. La diffusione dei risultati è stata ottenuta con la pubblicazione del Volume Stranieri e droghe, Armando Ed., Roma, 2007, corredato da un CD-ROM contenente tutti i dati della ricerca.

Un progetto di rilievo riguarda sicuramente la realizzazione del piano esecutivo d’azione PEA 21/06- “Managerialità della dirigenza penitenziaria”, completato con successo nel corso del 2007. La emanazione della Legge 27 luglio 2005, n. 154 (c.d. Legge Meduri) e la successiva produzione normativa che ne è derivata hanno definito il ruolo e gli ambiti della formazione e dell’aggiornamento professionale dei dirigenti. In questo contesto normativo è stata, quindi, inserita la predisposizione del PEA “Managerialità del dirigente penitenziario” con l’obiettivo principale della valorizzazione e dello sviluppo professionale attraverso l’azione della formazione e l’aggiornamento dei dirigenti che operano all’interno dell’istituto penitenziario. L’Istituto Superiore di Studi Penitenziari, in attuazione del PEA, ha operato una ricerca-intervento al fine di individuare le linee guida per la formazione dei dirigenti dell’Amministrazione Penitenziaria e nello stesso tempo per definire i programmi per i primi interventi formativi che saranno realizzati nell’anno in corso. è stata, quindi, possibile la definizione della identità del dirigente penitenziario e del quadro di competenze necessarie per l’esercizio della funzione dirigenziale, alla luce delle nuove esigenze organizzative determinate anche dal mutato quadro normativo di riferimento. La realizzazione di questo progetto ha coinvolto tutti i dirigenti dell’Amministrazione attraverso la somministrazione di un questionario, i cui risultati sono stati analizzati mediante la realizzazione di Focus Group ai quali hanno partecipato rappresentanze territoriali del suddetto personale.

Luigia Mariotti Culla
direttore dell'issp
(istituto superiorie degli studi penitenziari

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I mille volti del crimine

Elemento essenziale dell’atto criminoso è il “movente nucleico e malefico”, la spinta distruttiva, assassina e primordiale del perché l’essere umano aggredisce il proprio simile in modo gratuito e crudele, oltrepassa i limiti della morale, della ragione e della legge, si fa dominare e determinare dalle passioni, dalle debolezze e dalle emozioni

"Dove c’è l’uomo c’è il crimine” e “L’uomo è l’unico essere vivente che commette crudeltà contro i propri simili”: sono enunciati fondamentali della criminologia, la scienza interdisciplinare che studia il crimine, i criminali, le motivazioni del crimine, perché i crimini variano nel tempo e nello spazio per quantità e qualità, come combattere e prevenire il crimine, come recuperare i criminali.
Il crimine, anche se si presenta sotto innumerevoli aspetti, contesti, modalità esecutive, moventi, situazioni e vittime, è definibile come “l’aggressione a un bene dopo averne superato il sistema protettivo, aggressione che produce un danno al bene aggredito” e “la violazione di regole sociali ed etiche che produce danno - effetto aggressione - a un bene protetto dalla società e dalla Legge”. Di fatto, l’equazione del crimine è formata da tre elementi interconnessi ma incredibilmente variabili: il bene aggredito, il danno al bene, il superamento del sistema protettivo del bene aggredito. Il bene aggredito è qualunque entità - persone, vita, incolumità, proprietà, oggetti, valori, denaro, processi, informazioni, immagini, quote di mercato, credibilità, posizioni di potere, connessioni, ecc. - che possa essere aggredita e che sia considerata danneggiabile. Il bene aggredito può essere la vita di un bambino, di una donna, di un operaio, di un servitore dello stato, di un padre di famiglia, di un emarginato: in tal caso abbiamo il più grave dei crimini, l’omicidio, la soppressione di una vita umana. Un crimine prodotto da pulsioni irrefrenabili, dalla ricerca di gratificazioni psicologiche e materiali, dalla slatentizzazione di istinti mortali e maligni, da interessi puramente economici, da circostanze che vanno da quelle banali a quelle eccezionali; da stati psichici alterati dall’ira, da perversioni sessuali, da egoismi bestiali, dall’avidità, dalla follia. Il danno è ogni effetto che il criminale ha causato al bene aggredito: è l'effetto del crimine e dell’aggressione; è la perdita del bene aggredito, la sua modifica o la sua distruzione. Ad esempio, distruzione della vita, della incolumità, della proprietà, di oggetti, di valori, di denaro, di processi, di informazioni, di immagini, di quote di mercato, di credibilità, dell'onore, delle posizioni di potere, di collegamenti di qualunque tipo. Il danno è l’effetto aggressione. Il superamento del sistema difensivo è quell’insieme di azioni, strategie e progetti criminali che il delinquente mette in atto per oltrepassare le misure di sicurezza, il controllo sociale, le norme giuridiche e le difese naturali che tutelano ogni bene. Basti pensare che molto difficilmente un bambino possa essere aggredito in mezzo alla folla, proprio perché scattano nell’immediatezza tutte le regole e i principi di solidarietà e di controllo quali la madre che si oppone, il passante che interviene, la folla che si stringe attorno alla vittima. Altro classico esempio è “L’occasione fa l’uomo ladro”, laddove si sostiene (sarà vero?) che, se vi sono la possibilità esecutive di rubare e la possibilità dell’impunità, l’uomo da onesto diviene ladro; ciò significa che l’uomo porterebbe in sé l’istinto predatorio e criminale.

L’elemento essenziale del crimine è il “movente nucleico e malefico”, cioè, la spinta distruttiva, assassina e primordiale del perché l’essere umano aggredisce il proprio simile in modo gratuito e crudele, del perché oltrepassa i limiti della morale, della ragione e della Legge, del perché si fa dominare e determinare dalle passioni, dalle debolezze e dalle emozioni. Questo “nucleo malefico” l’ho individuato nella “triade criminogena” o “triade generativa del crimine”, una combinazione maligna di tre fattori quali (1) l’avidità umana distruttiva, (2) la perdita della ragione e della coscienza umana, (3) la soddisfazione crudele dei bisogni primari a danno di altri esseri umani. A tal proposito faccio riferimento a quattro geni dell’umanità, anche se i riferimenti e i pensatori sono numerosi. Dante Alighieri ci descrisse quella Bestia immonda che è L’AVIDITÀ UMANA con i versi immortali “ch’ella fa mi tremar le vene e i polsi … e ha natura sì malvagia e ria, che mai non empie la bramosa voglia, e dopo il pasto ha più fame che pria”. Francisco Goya nella sua incisione emblematica e geniale “Il sonno della ragione genera mostri” facente parte della serie intitolata “Capricci”, rappresenta un uomo addormentato mentre prendono forma, attorno a lui, inquietanti e sinistri uccelli notturni, minacciosi ed allucinati volti ghignanti, felini diabolici e famelici, che, come suggerisce il titolo, sono il parto della mente umana che ha abbandonato la Ragione e la Coscienza umana, così lasciando ampio spazio agli istinti ed alle parti arcaiche del cervello, agli egoismi, alle sopraffazioni ed alle crudeltà. Bertold Brecht in “L’opera da tre soldi” sigilla: “Prima viene lo stomaco, poi viene la morale”, mentre F. D. Dostoevskij nei Diari scrive: “… in nessun ordine sociale si sfuggirà al male e l’anima umana non muterà: l’aberrazione e il peccato scaturiscono da lei stessa”. L’insegnamento dei due grandi pensatori è ovvio: nell’essere umano la violenza, l’aggressività, l’egoismo e l’autoconservazione sono supremi e dominanti; sono essi che decidono obbiettivi, strategie e vittime; e nessuna norma sociale, etica e giuridica potrà mai debellarle laddove essi perseguano il soddisfacimento di bisogni primari e personali. Dobbiamo convivere con il male e il crimine, sia con quelli (1) interni, personali e soggettivi, sia con quelli (2) esterni, oggettivi e relazionali. Il male e il crimine del primo gruppo sono insiti nella natura umana, con essa si ramificano e si aggrovigliano, in essa traggono linfa e giovamento, su di essa mutano ed esercitano pulsioni e controlli. Fanno parte del nostro corredo biologico, ma possono essere controllati, mediati o filtrati dalla Ragione, dall’etica e dalla logica. Il male e il crimine del secondo gruppo sono del tipo oggettivo, situazionale, sociale, storico, interrelazionale, politico, umano e giudiziario; dipendono da innumerevoli fattori e producono innumerevoli scenari ed eventi, possono essere controllati, inglobati, direzionati, alleviati, frammentati, limitati e disattivati. MALE e CRIMINE bisogna conoscerli, studiarli, non ignorarli, apprezzarli per il loro significato scientifico e biologico, per il loro peso sociale e distruttivo, per le loro qualità intrinseche e magnetiche, per le loro potenzialità: solo conoscendo il nemico lo si può battere, neutralizzare, isolare o integrare, attivando i giusti rimedi a breve, medio e lungo termine, con appositi “strategie, competenze, risorse e sistemi”.
Carmelo Lavorino
criminologo criminalista e investigatore criminale

venerdì 25 gennaio 2008

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Il senso della sicurezza
25.1.2008
Secondo l’opinione dei sociologi il pregiudizio generato da paure ed ossessioni nei confronti di individui appartenenti ad un’etnia o cultura diversa dalla propria si trasforma sovente in razzismo. Le paure dell’invasione e della globalizzazione facilitano poi il connubio extracomunitario-ladro/stupratore/omicida che sembra essere diventato uno stereotipo comune. Ma il problema della sicurezza e della criminalità presenta altre sfaccettature socio-economiche che dovrebbero essere prese in esame e che condizionano i percorsi di ogni individuo come la povertà, la mancanza di lavoro, il basso livello di istruzione, la tossicodipendenza e, non ultime, le esperienze traumatiche di una vita poco fortunata. D'altra parte la secolarizzazione del mondo occidentale con il progressivo indebolimento delle ideologie e delle fedi religiose ha portato ad un disorientamento nei confronti dei valori e della morale spingendo l’individuo alla ricerca ossessiva del piacere. Se poi consideriamo che la nostra società è strutturata quasi esclusivamente sull’importanza di un’immagine vincente si può facilmente capire come molti individui siano emarginati e introdotti in percorsi devianti. Ed è proprio su questi aspetti che si inserisce l’utilizzo della violenza nella prevaricazione fisica e psicologica dell’altro, dei più deboli, delle donne, sui bambini o nel condizionamento delle masse e della folla che si traduce nei drammatici avvenimenti degli stadi o delle manifestazioni come il G8 di Genova. Una questione rilevante da porsi è però quanto tutto questo sia legato alla nostra personale percezione del fenomeno o al modo in cui lo stesso fenomeno è visto o rappresentato da opinionisti, persone con responsabilità politiche e istituzionali e dagli organi di comunicazione di massa. Evocare lo spettro della microcriminalità (lavavetri, venditori abusivi, barboni, questuanti) come grave pericolo da combattere non prendendo adeguati provvedimenti, almeno paritari, verso la criminalità organizzata, la mafia e le lobby del mercato umano e della droga quantomeno rende perplessi se non completamente sfiduciati. è possibile anche che, pur a fronte di un livello stazionario dei dati sulla criminalità, le nostre aspettative di sicurezza siano aumentate, così come l’idea del diritto ad una vita soddisfacente. Nel contempo è aumentato il numero delle persone anziane, sicuramente più timorose e deboli. Poi la frenesia della competizione sociale ha tolto tempo al rapporto umano creando società sempre più solitarie ed anonime con istituzioni burocratizzate e servizi sempre più impersonali che trasmettono insicurezza. Infine in un contesto di scarsa e spesso discutibile applicazione dei regimi detentivi, non investire sul reinserimento sociale dei detenuti ha favorito la reiterazione del reato quando questi tornano in libertà. Rispetto ai secoli e agli anni passati quindi non sembra che ci sia stato un aumento di violenza e criminalità ma invece è evidente come sono diverse le modalità e le tipologie in cui queste vengono espresse. è probabile che forme sommerse siano venute allo scoperto, sicuramente difficile è l'interazione di nuove culture, e gli strumenti mediatici sono ridondanti e vengano strumentalizzati. Di certo oggi lo scenario è cambiato e proprio per questo le istituzioni, il potere politico (e soprattutto quello economico) devono individuare le risposte più appropriate in modo che i cittadini possano considerarsi oltre che “consensi elettorali" anche persone sicure.

Massimiliano Fanni Canelles
direttore Social News

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Detenzione, estrema ratio
Social News 25.1.007
Per ridurre drasticamente il ricorso alla pena detentiva, sono in fase di elaborazione e di studio due diversi percorsi di riforma. Il primo persegue l’obiettivo di ampliare il ventaglio delle sanzioni principali, anche attraverso un catalogo di sanzioni non detentive, irrogate direttamente dal giudice del processo, da gestire all’interno della comunità sociale così da evitare gli effetti desocializzanti tipici del carcere. Una seconda linea di tendenza si propone di estendere l’area di operatività delle attuali misure alternative alla detenzione

Nel dibattito sulla pena nel nostro Paese si fa strada l’idea che la carcerazione rappresenti oggi la risposta più facile ed al tempo stesso meno adeguata per fronteggiare le forme di devianza sociale. Tale affermazione è spesso accompagnata da una diretta critica al sistema delle misure alternative sia quanto alle previsioni normative che ne limitano la concreta operatività, sia per quanto concerne l’applicazione delle stesse da parte della magistratura di sorveglianza. È stato espresso di recente, da parte della massima carica dello Stato, l’auspicio che, attraverso opportuni interventi di riforma del sistema penale e penitenziario, si giunga a considerare la pena detentiva come extrema ratio, come sanzione da applicare solo relativamente ai reati che producono maggiore allarme sociale. Per ridurre drasticamente il ricorso alla pena detentiva, sono in fase di elaborazione e di studio due diversi percorsi di riforma. Il primo, che si svolge nell’ambito dei lavori della Commissione di riforma del Codice penale (Commissione Pisapia), persegue l’obiettivo di ampliare il ventaglio delle sanzioni principali, affiancando alla tradizionale pena detentiva (unica in concreto applicata) un nuovo catalogo di sanzioni non detentive, irrogate direttamente dal giudice del processo, da gestire all’interno della comunità sociale così da evitare gli effetti desocializzanti tipici del carcere. Una seconda linea di tendenza si propone di estendere l’area di operatività delle attuali misure alternative alla detenzione, già previste dall’Ordinamento penitenziario, per dotare la magistratura di sorveglianza di strumenti sempre più efficaci per favorire il reinserimento sociale dei condannati (proposta di riforma dell’Ordinamento penitenziario redatta dal Presidente Margara). L’eccessivo ricorso alla carcerazione nel nostro sistema penale è il dato di partenza di ogni riflessione. E, tuttavia, l’osservazione della realtà degli istituti penitenziari e delle presenze che si registrano al loro interno evidenzia come tale affermazione trovi ampio e positivo riscontro, in particolare, durante la fase delle indagini preliminari e del successivo accertamento delle responsabilità (primo e secondo grado del processo di merito), potendosi constatare un consistente ricorso da parte dei giudici alla misura della custodia cautelare in carcere. Le statistiche dei detenuti presenti alla data del 31 dicembre 2006 negli istituti penitenziari della Regione Lazio informano che su un totale di 3.900 detenuti, circa il 60% è in attesa della condanna definitiva e, quindi, ancora in stato di custodia cautelare.

Non può sfuggire che il basso dato percentuale concernente i condannati definitivi trae origine da una stratificazione normativa disordinata e spesso schizofrenica degli interventi di riforma predisposti per la fase esecutiva, a volte caratterizzati da una esasperata tendenza a rinviare il momento della esecuzione (attraverso forme di sospensione più o meno automatica), ovvero, da improvvisi inasprimenti sollecitati da campagne di stampa che producono allarme nella opinione pubblica (dalle preclusioni previste per i reati di cui all’art. 4 bis Ordinamento penitenziario, alla nuova disciplina della recidiva). Nella fase esecutiva, dunque, la carcerazione, pur rappresentando l’unica risposta sanzionatoria, risente di una serie di impulsi (legati anche alla eccessiva dilatazione dei tempi del processo) che la rendono in qualche modo inevitabile, ma che spesso ne comportano una concreta applicazione a distanza di molti anni dal reato commesso. Una carcerazione che intervenga a sanzionare con la privazione della libertà personale un individuo per un reato commesso dieci o anche quindici anni prima non è degna di un Paese civile, in quanto si pone essa stessa di ostacolo a processi di risocializzazione eventualmente già avviati. Se il carcere rappresenta, quindi, l’unica risposta che l’ordinamento è in grado di offrire ai problemi della devianza, si deve sottolineare, d’altra parte, come per chi sia entrato nel circuito carcerario risulti sempre più difficile accedere alle misure alternative previste dall’Ordinamento penitenziario. Gli ostacoli sono molteplici, ma per lo più riconducibili alle seguenti situazioni. Spesso le pene detentive di breve durata (entro un anno) vengono espiate integralmente in carcere da chi sia sottoposto a custodia cautelare, a causa della insufficienza dei tempi per avviare una effettiva osservazione penitenziaria e predisporre, quindi, un programma di trattamento adeguato alle caratteristiche individuali della persona condannata. In molti casi, persone che hanno alle spalle una devianza non marginale e che hanno riportato negli anni diverse condanne, si trovano, in occasione del più recente episodio criminoso, a dover subire l’adozione da parte del pubblico ministero di un provvedimento di cumulo (con frequente revoca di benefici in precedenza concessi) che finisce per determinare una quota di pena incompatibile con alcuno dei benefici penitenziari previsti. La difficoltà di accesso alle misure alternative è normativamente imposta, per altro verso, nei confronti delle persone condannate per reati ricompresi nella previsione dell’art. 4 bis Ordinamento penitenziario, per una parte dei quali ogni misura esterna è preclusa per legge, salvo che non sussista una attività di collaborazione con la giustizia. Vengono prese in considerazione per ultime (ma rappresentano un numero sempre più rilevante) le persone condannate che si inquadrano nella cosiddetta marginalità sociale (extracomunitari, tossicodipendenti di lunga data, disagiati psichici e psichiatrici), nei confronti delle quali il ricorso alle misure esterne è reso particolarmente difficoltoso dalla assenza di idonei riferimenti in grado di sostenere praticabili percorsi di inclusione sociale. L’incremento che negli ultimi anni si è registrato nella applicazione di misure alternative alla detenzione riguarda soprattutto il settore degli interventi realizzati nei confronti di condannati liberi che si sono presentati davanti ai vari Tribunali di sorveglianza dopo i provvedimenti sospensivi previsti dalla legge Simeone (legge n. 165 del 1998).

Il sistema descritto in questa breve premessa non si dimostra, tuttavia, sempre in grado di assicurare l’efficacia degli interventi sia in chiave di reinserimento sociale dei condannati, sia a livello di tutela da possibili e, purtroppo, frequenti forme di recidiva. Credo possa essere utile presentare un caso concreto, relativo ad una persona attualmente detenuta in un istituto detentivo a Roma, per verificare il livello di funzionalità degli interventi messi in atto nei suoi confronti e valutare, poi, se la riforma del Codice penale con i suoi contenuti sanzionatori, prevalentemente prescrittivi e non detentivi, sia in grado di produrre migliori risultati in termini di reinserimento sociale. Si tratta di una persona detenuta perché, in un lungo arco di tempo, ha commesso oltre dieci reati ed ha subito perciò una serie di condanne che nel corso degli anni (10 anni) non lo ha mai costretto ad un periodo di carcerazione di durata significativa. Dopo aver subito dei brevissimi periodi di carcerazione preventiva (quasi mai superiori a tre o quattro giorni), riusciva, infatti, a beneficiare della misura della sospensione condizionale della pena, che gli è stata concessa per ben sei volte. Continuando a commettere reati (prevalentemente contro il patrimonio, ma anche relativi alla detenzione al fine di spaccio di stupefacenti) senza che nessun servizio o istituzione pubblica l’abbia mai preso in carico, si è trovato nel 2005 a commettere un ultimo furto, un furto banale, di entità modesta, per il quale è stato condannato ad una pena detentiva di breve durata. Approfittando del suo stato detentivo, la competente Procura della Repubblica ha inteso verificare la complessiva situazione giudiziaria e penale di tale persona, provvedendo alla emanazione di un cumulo che ha portato la pena complessiva ad oltre 9 anni di carcere. L’aspetto più sorprendente di tale vicenda non è tanto il numero di anni che si sono sommati arrivando fino a nove, quanto il verificare che, a fronte di una serie di reati ripetuti nel tempo a breve distanza l’uno dall’altro, questa persona aveva scontato solo tre anni circa di carcerazione preventiva, trovandosi, quindi, a dovere espiare, una volta formato il cumulo, una pena detentiva residua di oltre 6 anni di carcere. L’entità della pena residua rendeva, pertanto, impossibile qualunque ipotesi di misura alternativa, senza considerare che le prospettive di recupero del giovane (già tossicodipendente da molti anni) si erano nel frattempo assai complicate, a causa del progressivo deterioramento delle condizioni personali, anche rispetto all’abuso delle sostanze, ed alla perdita quasi totale di riferimenti affettivi e familiari in grado di supportare un eventuale percorso terapeutico. Solo il recente provvedimento di indulto del luglio scorso ha riportato la situazione in limiti accettabili, con la rideterminazione di una pena detentiva inferiore ai quattro anni, dalla quale ripartire verso possibili forme di cura e riabilitazione. Il punto critico della situazione (che è assolutamente frequente negli istituti penitenziari) si scorge ove si consideri che questa persona, tossicodipendente nel 1991 e che commetteva reati per procurarsi la dose di sostanza necessaria, per oltre un decennio non è stata presa in carico da nessuno. Mi chiedo, cos’è che ha spinto l’ordinamento (lo Stato nel suo insieme) a mostrare questa faccia così clemente, così indulgente nei confronti del condannato tanto da fargli scontare, a fronte di nove anni di pena complessiva, solo tre anni di pena? L’idea riabilitativa o risocializzante della sanzione? Non credo si possa sostenere che la concessione per sei volte della sospensione condizionale della pena (con implicito invito a proseguire nella propria condotta deviante, vista l’assenza di reazione da parte dell’ordinamento) faccia parte di un programma di intervento razionale volto a favorire il superamento delle problematiche evidenziate dal giovane. Piuttosto, mi sembra di scorgere nell’atteggiamento dell’ordinamento una palese indifferenza verso le sorti del condannato, che si è consumata attraverso una forma di totale disinteresse nei confronti di chi si era reso responsabile di reati che trovavano la loro origine in una forma di disagio sociale aggravata dall’abuso di sostanze stupefacenti.

Con quale autorevolezza lo Stato, finora assente, si presenta oggi al condannato ricordandogli che il debito contratto con l’amministrazione della giustizia è, per così dire, lievitato nel tempo a causa di una mancata tempestiva risposta degli organi competenti? La fallimentare politica penale della mera sospensione condizionale della pena, ripetuta illegittimamente nel tempo, senza il contestuale avvio di un progetto di recupero in favore del giovane autore di reati, ha prodotto solo un incremento di reati e di conseguente carcerazione, tanto più grave perché la privazione della libertà personale si concretizza, per un periodo di tempo medio lungo, a distanza di oltre dieci anni dall’inizio della devianza, in presenza di una situazione particolarmente aggravata sul piano personale, rispetto a 10 anni fa, e complicata dall’insorgere di gravi problemi psichici. Occorre domandarsi, in proposito, se le soluzioni normative ipotizzate dalla Commissione di riforma del Codice penale, ove applicate al caso in esame, avrebbero determinato un risultato diverso e più attento alle istanze risocializzanti del condannato. La tipologia degli interventi auspicati con il ricorso a sanzioni principali diverse da quella detentiva avrebbe potuto mutare sensibilmente il quadro di riferimenti del condannato ed avviarlo verso un progetto di recupero già durante la fase di uno dei tanti processi conclusi con la sospensione condizionale della pena? Credo che una risposta positiva possa essere data solo ove si immagini che le pene alternative irrogate con la sentenza di condanna siano accompagnate da una previsione di immediata operatività, nel senso che le misure di sostegno e di controllo che le caratterizzano possano essere attivate fin dal momento della emissione della sentenza di condanna di primo grado. Tale precisazione si rende indispensabile, in quanto le sanzioni irrogate in sostituzione della pena detentiva, per risultare efficaci, non possono attendere i tempi necessari per la definitività della sentenza, in quanto del tutto imprevedibili e, soprattutto, non coordinati con le reali necessità di recupero del soggetto. Occorre sottolineare con forza, in questa sede, come la presa in carico di una persona da parte di servizi o istituzioni pubbliche o private (gli U.E.P.E., i Ser.T., le Comunità terapeutiche…), ai fini dello svolgimento di una prova o di una misura prescrittiva, non possa essere rinviata nel tempo in attesa della irrevocabilità della sentenza, pena il suo sostanziale fallimento. Ritengo che gli approfondimenti ancora in corso nell’ambito dei lavori della Commissione per la riforma del Codice penale debbano farsi carico di questa problematica, perché si dovrà realizzare un sistema che consenta al giudice del processo di disporre, prima della irrogazione della pena non detentiva, di tutta una serie di informazioni (acquisibili anche attraverso l’indagine affidata agli U.E.P.E.) che potranno supportare la decisione così da costruire un percorso che vada concretamente nella direzione di un tentativo di possibile risocializzazione del condannato. In tale prospettiva, si dovrebbe partire ricercando la condivisione, da parte della persona sottoposta a processo, di un meccanismo di anticipazione della presa in carico, funzionale al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, che potrebbe trovare la sua sede naturale in una sorta di accordo tra le parti, reso ufficiale dall’intervento del giudice, per l’applicazione di una pena prescrittiva, di tipo non detentivo, che non intervenga sul quantum di pena, ma sulla modalità di applicazione della pena stessa. Per quanto concerne, infine, l’istituto della sospensione del processo con messa alla prova, pure previsto nell’ipotesi di riforma del Codice penale, ritengo che la misura possa e debba trovare ingresso nel diritto penale degli adulti, con le stesse modalità già previste per i minori autori di reato e, quindi, senza limiti di pena o esclusioni collegate alla tipologia del reato commesso o alla personalità del condannato. Immaginare che questa particolare misura di probation possa, nel mondo degli adulti, essere applicata con ristretti limiti di pena (si parla di reati puniti, in astratto, con pene non superiori a tre anni), dimostra una mancata consapevolezza dei meccanismi che presiedono l’applicazione del sistema penale nel suo complesso ed apre la strada ad una prevedibile impossibilità di applicazione dell’istituto, senza contribuire a risolvere alcuna delle esigenze prospettate all’inizio.
Atti della Giornata di Studi Nazionale, Persone, non reati che camminano. Ripensare la pena.
Venerdì 25 maggio 2007 - Casa di Reclusione di Padova (www.ristretti.it/)

Paolo Canevelli
magistrato di sorveglianza di roma

STATISTICHE PENITENZIARIE


GARANTE DEI DIRITTI DEI DETENUTI

Spadaccia; aumenta repressione, in carcere e fuori
Garante diritti detenuti di Roma, 25 gennaio 2008

Intervento del Garante comunale al convegno della Camera penale di Roma sulla crisi della giustizia: "Orientamenti repressivi nell’esecuzione della pena e nelle misure alternative al carcere".
Il Garante delle persone private della libertà, Gianfranco Spadaccia è stato invitato ad intervenire al convegno della Camera penale di Roma, il 23 gennaio, sulla crisi della giustizia nella sezione dedicata alla esecuzione della pena e alle misure alternative, nella quale sono intervenuti il vice capo del Dap Luigi Di Somma, il direttore di Rebibbia Nuovo Complesso Carmelo Cantone e il giudice di sorveglianza Paolo Canevelli.
Questo è il testo dell’intervento: "Caro Presidente Caiazza, cari amici della Camera Penale,purtroppo un contemporaneo incontro a Firenze con gli altri garanti comunali e i garanti regionali, fissato da tempo, mi impedisce di essere tra voi.
Me ne dispiace perché le questioni relative all’esecuzione della pena non sono questioni secondarie ma centrali non solo al fine della attuazione dell’art. 27 della Costituzione ma anche per assicurare la stessa funzionalità ed efficacia del sistema penale. Mi sarebbe perciò interessato confrontarmi su di esse con voi e con coloro che sono quotidianamente i miei interlocutori: i rappresentanti della amministrazione penitenziaria e i giudici di sorveglianza.
Da anni ormai si ripete che il sistema penale non si può affidare solo al carcere e che, sull’esempio degli altri paesi europei, è necessario ricorrere in misura molto maggiore di quanto attualmente avviene a misure penali alternative. Da anni ormai le statistiche del DAP ci confermano che la recidività di coloro che tornano alla libertà dopo aver scontato una parte della pena in misura alternativa è di almeno tre volte inferiore alla recidività di coloro che escono direttamente dal carcere. Tutti riconoscono che l’affidamento in comunità, l’affidamento ai servizi sociali, il lavoro esterno, la semilibertà, la libertà condizionale consentono alle persone sottoposte a pene di ricostituire un tessuto di rapporti sociali e di relazioni affettive oltre alla possibilità di trovare occasioni di lavoro.
Nonostante questo, le pene alternative in Italia sono in media un terzo di quelle a cui si fa ricorso negli altri paesi europei, dove quasi ovunque superano nettamente le pene detentive mentre da noi il rapporto fra le une e le altre è rovesciato. E la tendenza che ormai da tempo si sta sempre di più affermando è quella di restringerne ulteriormente il ricorso anziché ampliarlo.
Ha cominciato il legislatore, rinviando in continuazione di governo in governo e di legislatura quella riforma del Codice penale alla quale lo stesso parlamento aveva affidato il compito di riconsiderare la gerarchia dei beni penalmente tutelabili in armonia con i mutamenti sociali intervenuti dall’epoca in cui fu varato il codice Rocco e di riconsiderare il sistema delle pene, facendo ricorso per tutta una serie di reati a strumenti diversi dal carcere. In mancanza di questa riforma, lo stesso legislatore continua ad affidarsi, sull’onda di campagne mediatiche, a interventi di emergenza che contribuiscono di volta in volta a scardinare ulteriormente il sistema penale e, in nome di una male intesa esigenza di sicurezza, finiscono per irrigidire e limitare il ricorso alle pene alternative in contrasto con i criteri ispiratori cui dovrebbe attenersi il nuovo codice penale. Non solo: il combinato disposto dell’incrudimento delle misure detentive (alta sicurezza e 41 bis) e dell’esclusione di qualsiasi possibilità di beneficio futuro sta creando una categoria di veri e propri "sepolti vivi" per i quali l’espressione "fine pena mai" va presa alla lettera.
Questa tendenza restrittiva condiziona ed ispira molto spesso le interpretazioni dei giudici della sorveglianza che sono anche i giudici dell’esecuzione della pena e finisce per ripercuotersi finanche nel trattamento dei detenuti in carcere. Si direbbe che, a causa delle accanite polemiche politiche e di stampa che si verificano ogni volta che un detenuto approfitta di un permesso o di una misura alternativa per tornare a delinquere, molte decisioni e comportamenti ai diversi livelli siano dettati essenzialmente dalla paura di sbagliare, dalla paura di rischiare nel mettere alla prova le possibilità di cambiamento e di positivo reinserimento del detenuto nella vita sociale e produttiva. È evidente che non c’è e non ci può essere nessuna garanzia preventiva che questo non accada e almeno fino a quando esisteranno - ancorché limitate - le misure alternative, alla cui valutazione e concessione si riduce ormai la funzione del giudice di sorveglianza, essendo praticamente scomparsa la originaria funzione di garanzia, questo rischio, il cosiddetto rischio di sbagliare, non può essere eliminato. È insito per così dire nella funzione. In definitiva, piaccia o non piaccia, a far fede della bontà o non bontà delle misure alternative e delle decisioni dei giudici di sorveglianza, alla fine - adempiuti nella maniera anche la più rigorosa gli accertamenti giurisdizionali - saranno solo le statistiche e le percentuali delle violazioni, le quali sono rimaste sempre costantemente assai contenute dal momento della approvazione della legge Gozzini. E non si può ogni volta, per i pochi che violano, dimenticare o mettere a rischio il buon esito che le misure alternative hanno per la grande maggioranza dei detenuti che ne beneficiano.
A questa tendenza generale, che è difficile negare, si aggiunge l’orientamento di alcuni - fortunatamente una minoranza - che introducono categorie interpretative francamente inaccettabili della nozione di ravvedimento o mostrano un particolare accanimento nei vincoli imposti a chi viene sottoposto a pene alternative. Non si contesta qui la giusta esigenza di far comprendere a chi ne beneficia che la misura alternativa è una mutazione e non una fuoruscita dalla pena, è un cammino verso la libertà e non una anticipazione della libertà. Ma non si comprende perché si debba arrivare a volte, come è accaduto recentemente, a far morire in carcere un malato terminale, le cui condizioni erano state dichiarate dalla medicina penitenziaria incompatibili con la detenzione, perché malati di aids in stadio avanzato non debbano essere affidati a comunità fra l’altro per lo Stato molto meno costose del carcere, o perché, fatte salve tutte le necessarie procedure di autorizzazione e di controllo da parte della polizia, si debbano porre limiti eccessivi che sono di ostacolo alla realizzazione degli obiettivi a cui la misura alternativa dovrebbe tendere: la ricerca del lavoro, il reinserimento nel mondo produttivo e la ricostruzione di normali relazioni affettive e familiari.
Ora io credo che sia interesse di tutti, in primo luogo degli stessi giudici di sorveglianza e dei responsabili del trattamento in carcere, il massimo di trasparenza, di pubblicità, di confronto e di dibattito sulle decisioni che vengono prese e sugli orientamenti che le ispirano, il massimo di controllo pubblico sugli effetti e gli esiti delle misure alternative, con una serie statistica anno per anno per ciascuna di esse, a cominciare dai permessi premio, che sono il presupposto necessario per accedere alle altre misure. È il motivo per il quale ho chiesto al Comune di finanziarmi una ricerca di monitoraggio del trattamento in carcere e una ricerca (possibilmente di dottorato) sulla giurisprudenza dell’esecuzione della pena nella città di Roma. Se il Comune sarà disponibile, prenderò contatto con le cattedre di diritto penale e sottoporrò il progetto al presidente dell’Ufficio di sorveglianza e alla amministrazione penitenziaria, nei quali confido di trovare disponibilità e collaborazione.
E se su tutto questo riusciremo a gettare un costante e opportuno fascio di luce e di conoscenza, forse riusciremo anche a coinvolgere la società esterna e il mondo produttivo nella ricerca dei mezzi e nell’offerta di opportunità che devono accompagnare le misure alternative, dalla cui concessione rischiano altrimenti di essere esclusi un gran numero di detenuti meno fortunati ne privi di relazioni esterne. E naturalmente, cari amici della Camera Penale, conto anche sulla vostra sensibilità, sul vostro interesse e sul vostro aiuto.

Il Manifesto

Governo Prodi, dall'indulto all'emergenza sicurezza
di Angelo Mastrandrea
25 gennaio 2007

Dall’indulto all’emergenza sicurezza, parabola di un governo che sul piano sociale è partito bene ma è finito peggio. La base di Vicenza, i Cpt, le droghe e i diritti civili: cronaca di un fallimento.
Si potrebbe racchiudere in due immagini la parabola del governo Prodi. La prima immortala Montecitorio che applaude l’indulto, la seconda si sofferma sul volto mite di un uomo con barba fluente e occhiali spessi. Dal giorno dell’approvazione bipartisan del provvedimento di clemenza alla morte in carcere di Aldo Bianzino sono passati un anno e tre mesi. Tanto è durata l’illusione che forse, se non un altro mondo, almeno un’altra politica fosse possibile.
Quella che il popolo di sinistra reduce da cinque anni di berlusconismo e i movimenti alter-mondialisti chiedevano al centrosinistra di nuovo al governo: l’abrogazione delle leggi della destra, un rapporto con le comunità locali ispirato alla partecipazione, una frenata sulle privatizzazioni e viceversa un’accelerazione sul fronte dei diritti civili, il no alla guerra.
La tragica fine di Bianzino nel penitenziario di Perugia diventa invece emblematica dell’involuzione di un governo che ben presto aveva visto incrinarsi il rapporto con una fetta del suo popolo. Non sono tanto l’atroce sospetto che sia stato ucciso in carcere e nemmeno il comportamento reticente delle autorità carcerarie a svelarlo, quanto il fatto che se si fosse messa mano a una delle leggi più autoritarie della destra, la Fini-Giovanardi sulle droghe, Bianzino in carcere non ci sarebbe mai finito.
Di lì a poco l’associazione Antigone rivelerà: "L’effetto dell’indulto è svanito, le carceri sono di nuovo piene". E il governo che si era presentato con un atto di garantismo comincia la sua parabola discendente facendo della sicurezza una bandiera da sventolare in pubblico. Qualche giorno dopo l’omicidio nella capitale di Giovanna Reggiani, uccisa da un immigrato romeno, il leader del Pd Walter Veltroni preme per far convocare un consiglio dei ministri d’urgenza e varare un decreto legge "anti-rumeni".
Prima ancora si era scatenata una furibonda caccia al "lavavetri" immigrato ed era arrivato il giro di vite del ministro dell’Interno Giuliano Amato sugli ultras, cui seguiranno la morte di un giovane tifoso laziale, Gabriele Sandri, ucciso da un poliziotto su un autogrill, e una notte di scontri da Milano a Roma.
Un clima di turbolenza sociale, quello degli ultimi mesi, che si arricchirà della guerra dei rifiuti in Campania. Ma questa è storia delle ultime settimane. All’indomani della sua investitura, il 17 maggio del 2006, il governo Prodi si era presentato con un atto di grande effetto, sia pur previsto: il ritiro delle truppe dall’Iraq.
Era quello che chiedevano i movimenti pacifisti e per cui il 15 febbraio del 2003 erano scese in piazza a Roma tre milioni di persone. Nel frattempo, sull’onda dell’entusiasmo il ministro dell’Ambiente Alfonso Pecoraro Scarno assicurava che il Ponte sullo Stretto era definitivamente abortito e quello della Solidarietà sociale Paolo Ferrero preparava la riforma delle leggi su immigrazione e droghe, nonché un piano per far fronte all’emergenza abitativa.
I risultati saranno magri: sul fronte casa si riuscirà con difficoltà a rinnovare il blocco degli sfratti, su quello dell’immigrazione la legge invece arriverà ma difficilmente riuscirà a concludere il suo iter parlamentare, su quello delle droghe Livia Turco proverà a raddoppiare le "soglie" previste dalla legge Fini ma incorrerà nel vero del Tar.
Viene nominata una commissione sui Cpt guidata dall’ex ambasciatore Onu Staffian de Mistura. La parola d’ordine è "superarli", il risultato è che tre di questi chiuderanno, mentre gli altri continueranno a funzionare regolarmente. Nel frattempo, le code alle poste per le regolarizzazioni vengono sostituite da analoghi ingorghi telematici, che hanno quanto meno il merito di essere meno faticosi.
I pochi successi arrivano sul fronte dei beni comuni, dove i movimenti ottengono una moratoria delle privatizzazioni dei servizi idrici e, di fatto, finiscono in un cassetto la Tav e il Ponte sullo Stretto. E su quello della cooperazione, dove Prodi è costretto a reintrodurre il Fondo per la lotta all’Aids tagliato da Padoa Schioppa e il consiglio dei ministri partorisce una riforma. L’unica legge della destra che viene interamente riscritta è quella Moratti sulla scuola, sostituita dalla riforma Fioroni.
Un altro successo di grande impatto simbolico riguarda infine la moratoria Onu sulla pena di morte. La liason con i movimenti comincia però a incrinarsi proprio sul fronte della politica internazionale. Inizialmente, in pochi si accorgono del progetto di costruzione di una mega base Usa a licenza. Si tratta di una bomba a orologeria che esploderà in autunno, culminerà in una grande manifestazione con i partiti della sinistra radicale e nel febbraio 2007 provocherà la prima crisi di governo.
Ma Prodi non cede e assicura: "La base si farà". Lo stesso premier già a luglio 2006 aveva sudato freddo sul rifinanziamento della missione in Afghanistan. Era stato in particolare il Prc a entrare in fibrillazione, e con esso i movimenti, spaccati in "governisti" e "anti-governisti". Alla fine arriverà il sì in nome della "riduzione del danno", che si sostanzia nella promessa di una conferenza internazionale di cui si è persa traccia.
Non va diversamente sul fronte del lavoro e dei diritti civili, il 4 novembre 2006 una grande manifestazione chiede di cancellare la legge 30 e il precariato, il 20 ottobre 2007 si scenderà in piazza per ribadirlo. Inutilmente. Il governo Prodi vede anche sfilare il più imponente Gay Pride dal Giubileo del 2000. In ballo c’è la legge sulle unioni di fatto, i cosiddetti Dico, poi trasformati in Cus e impantanati al Senato, e la laicità dello stato insidiata dalle ingerenze vaticane e dal Family Day. Ancora una volta inutilmente. Nel frattempo il caso Welby riaccende il dibattito su eutanasia e testamento biologico. Ancora una volta inutilmente. E fra qualche giorno scadranno le linee guida della legge sulla fecondazione, dove il Tar è arrivato prima del ministro Turco. Chi le rinnoverà

VITA

Lo stato della Giustizia 2007, il carcere non c'è
(redazione@vita.it)
25/01/2008Il Primo presidente della Cassazione Vincenzo Carbone e la relazione per l'inaugurazione dell'Anno Giudiziario. Relazione che non parla di carceri .Nella sua relazione il Primo presidente della Corte Cassazione Vincenzo Carbone per l'inaugurazione dell'Anno Giudiziario si sofferma molto sul tema dei rapporti tra politica e magistratura. "Non si può continuare ad assistere a processi mediatici, fuori del processo, che turbano la serenità e ostacolano la tempestività della Giustizia" sottolinea il Primo presidente della Cassazione V, ma i magistrati, è la sferzata del primo presidente, devono essere "pronti a reagire contro attacchi gratuiti, pretestuosi, spropositati, intimidatori, che vogliono in qualche modo interferire, per qualsiasi fine, sul rapporto tra il giudice e la legge, alla quale solo è soggetto". Una relazione che la redazione di Ristretti Orizzonti chiosa con questo calcolo delle parole ricorrenti nelle sue 66 pagine:contiene 130 volte la parola "giustizia"- contiene 79 volte la parola "pena"- contiene 18 volte la parola "spesa" (o "spese")- contiene 13 volte la parola "politica" (o "politico")- contiene 11 volte la parola "risarcimento" (o "risarcimenti")- contiene 9 volte la parola "sicurezza"- contiene 6 volte la parola "certezza" (della pena)- contiene 1 sola volta la parola "penitenziari"- non contiene neppure una volta la parola "carcere" (o "carceri")- non contiene neppure una volta la parola "detenuto" (o "detenuti") . Ovviamente, c'è qualcosa che non va.


CORTE DI CASSAZIONE: INAUGURAZIONE DELL'ANNO GIUDIZIARIO 2008. RELAZIONE DEL PRIMO PRESIDENTE DAVANTI A NAPOLITANO E PRODI

25 gennaio 2008- Corte di Cassazione, Aula magna. Alla presenza del capo dello Stato Giorgio Napolitano e del presidente del Consiglio e ministro della Giustizia ad interim Romano Prodi, il primo presidente della suprema corte di cassazione Vincenzo Carbone svolge la tradizionale relazione generale. Dopo di lui prendono la parola il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, il guardasigilli, il procuratore generale e il presidente del Consiglio Nazionale Forense.
"Relazione sull'amministrazione della Giustizia nell'anno 2007" del Primo Presidente della Corte di Cassazione Vincenzo Carbone
Intervento del presidente del Consiglio e ministro della Giustizia ad interim Romano Prodi