Giustizia/Carcere: I dati reali e la cultura dell’intolleranza sul carcere
di Giuseppe D. Colazzo (CFPP-Casa di Carità Onlus - Torino)
Ristretti Orizzonti
È di nuovo emergenza carcere. Dai dati raccolti dal Ministero della Giustizia risulta che l’affollamento negli Istituti di pena ha superato il livello di pareggio tra posti disponibili e numero di presenze, con una media di 113 detenuti presenti per 100 letti. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha pubblicato i dati della situazione al 14 febbraio 2008: 50.250 presenze, circa 7.000 in più della capienza regolamentare (43.216 presenze). Se si considera che i detenuti tendono ad aumentare di 1.000 unità al mese, è facile prevedere che alla fine del 2008 si oltrepasserebbe la soglia delle 60.000 presenze, cioè ci troveremmo nella medesima situazione della vigilia dell’approvazione della legge sull’indulto.
Certamente l’indulto ha lasciato il segno e la questione della recidività è tornata ad essere da un lato argomento discusso tra gli studiosi di scienze sociali, dall’altro sembra essere la giustificazione per propagandare politiche penali più repressive: più carcere, meno misure alternative, lavoro coatto, tolleranza zero per gli autori di reato; i mezzi di comunicazione di massa fanno la loro parte nel fomentare le paure dei cittadini indicando nell’indulto la causa di tutti i mali, senza mai fare riferimento a dati oggettivi.
Da una ricerca di prossima pubblicazione commissionata dal Ministero della Giustizia e condotta dai prof. G. Torrente, C. Sarzotti e G. Jocteau della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino risulta che circa 7.000 "indultati" sono stati arrestati per aver commesso un nuovo reato. Certamente non sono pochi, intorno al 20% di coloro che hanno usufruito del provvedimento di clemenza. Sono una goccia nel mare rispetto ai 130-140 mila ingressi in carcere registrati dal 1° agosto 2006 ad oggi. D’altra parte non si può dimenticare che, senza l’indulto del 2006, le proiezioni ci dicono che oggi la popolazione reclusa supererebbe abbondantemente le 70.000 unità: un disastro umanitario ed una minaccia per la collettività.
Secondo la stessa ricerca una forte riduzione della recidiva si riscontra negli ultimi mesi del 2007. Per il prof. Torrente ciò è dovuto probabilmente al fatto che sono entrati in funzione quei progetti di accoglienza e reinserimento sociale di ex detenuti avviati alcuni mesi dopo l’indulto; inoltre, sempre secondo Torrente, il deterrente maggiore per chi ha fruito del provvedimento di clemenza è che, in caso di recidiva, si deve scontare l’intera pena. Conclude dicendo che, in generale, "se si supera il primo periodo si cerca di stare più attenti".
Questa ricerca, ma anche un’altra condotta sempre dal prof. Torrente a sei mesi dalla legge sull’indulto, evidenzia in modo chiaro una colpevole incompetenza, forse anche voluta, da parte dei mezzi di comunicazione di massa. Non solo, ma se si attuano politiche di recupero e di risocializzazione la recidiva tende a diminuire, confermando in un certo senso anche altre ricerche condotte sul grado di recidività di detenuti ammessi alle misure alternative, dalle quali risulta che il tasso di recidività è estremamente più basso rispetto al 70% riferito a coloro che hanno scontato tutta la pena in carcere: infatti i dati del Ministero della Giustizia riferiti alle revoche registrate dal 2001 al 2006 ci dicono che sono state revocate complessivamente 19.281 misure alternative su 277.367 concesse, cioè la media del 6,92%; di queste solo 622 (0,22%) sono state revoche per commissione di reati durante la misura, 12.866 (4,63%) per andamento negativo, 5.384 (1,93%) per nuova posizione giuridica per assenza di requisiti giuridico-penali previsti, 263 (0,10%) per irreperibilità, 146 (0,05%) per altri motivi.
Per contro l’andamento positivo registrato nei 6 anni è in media del 93,08%. Inequivocabilmente i dati sottolineano il buon andamento delle misure alternative, almeno durante la loro esecuzione. E dopo? Tutte le ricerche condotte evidenziano che nei 5 anni successivi alla fine dell’esecuzione della pena in misura alternativa la recidività aumenta e si attesta intorno al 20-25%, estremamente al di sotto di quel 70-80% del tasso di recidività riferita a ex detenuti che hanno espiato tutta la pena in carcere.
Per sottolineare ulteriormente il livello di disinformazione esistente nel nostro Paese occorre fornire ancora alcuni dati sul numero dei reati. Negli ultimi mesi del 2007 i reati sono diminuiti di 145.043. Si è passati da 1.466.614 delitti, del 2°semestre del 2006, a 1.323.118 del 2°semestre del 2007. Omicidi volontari: 335 nel 2006, 277 nel 2007; lesioni dolose: 30.817 nel 2006 e 27.222 nel 2007; violenze sessuali: 2.309 nel 2006, 2.057 nel 2007; totale rapine: 27.568 nel 2006, 22.675 nel 2007; reati legati agli stupefacenti: 16.780 nel 2006, 16.610 nel 2007. L’unico reato che è aumentato nel 2°semestre del 2007 (80.549) rispetto al 1°semestre del 2007 (77.184), ma in calo rispetto al 2°semestre del 2006 (83.396) è il furto in abitazione, mentre le estorsioni sono calate nel 2° semestre 2007 (2.658) rispetto al 1° semestre (3.144), ma sono aumentate, seppur di poco, in confronto al 2° semestre 2006 (2.597).
Poi c’è il problema degli stranieri. A livello nazionale tra il 1980 e il 1990, fra le persone in carcere, il 15% erano stranieri. A giugno 2005 erano il 31,1% mentre al 31 dicembre 2007 sono aumentati al 37,7% provenienti da 144 Paesi diversi (in Piemonte al 31 dicembre 2007 gli stranieri erano il 52,2%, a Torino il 45%). I Paesi più rappresentati in carcere sono: Marocco 20,8%; Romania: 14,4%; Albania: 12,2%; Tunisia: 10,2%; Algeria: 5,7%; Nigeria: 3,7%; Iugoslavia: 3,0%; Egitto: 1,8%; Senegal: 1,8%; Cina: 1,4%; altri Paesi 24,8%. In valori assoluti gli stranieri al 31 dicembre 2007 presenti nelle prigioni italiane erano 18.252 su una popolazione complessiva di 48.693 (a febbraio, come detto sopra è arrivata a contare 50.250 unità).
Infine è doveroso sottolineare che la popolazione detenuta è costituita per il 3,2% da condannati per mafia, per il 3,7% di detenuti per reati contro l’amministrazione, per il 23,4% da tossicodipendenti , mentre il 64% ha un grado di istruzione che non va oltre la licenza media inferiore. Nella sostanza il carcere sta diventando sempre di più una discarica sociale dove finisce solo la manovalanza del crimine.
Dopo aver sciorinato un po’ di numeri cerchiamo di analizzare, per quanto è possibile, la situazione reale. Nonostante l’indulto le carceri continuano a riempirsi. E questo era facilmente prevedibile perché il provvedimento di indulto avrebbe dovuto essere accompagnato da una riforma del sistema penale volta alla riduzione del ricorso alla carcerazione al minimo indispensabile, è necessario contenere il "bisogno di prigione" nei limiti della sua efficacia rispetto allo scopo (L. Manconi, Sottosegretario alla Giustizia).
A parte le posizioni politiche, dalle ricerche sopra esposte è evidente che le misure repressive d’emergenza non affrontano il problema di lungo periodo perché "pretendono di svuotare la vasca della criminalità schiacciando l’acqua con una mano. Senza sapere che poi torna al suo posto quando si toglie la mano. Senza capire che, se si vuole ottenere una riduzione permanente del crimine bisogna analizzare e contrastarne la cause".
Certamente la minaccia della repressione dello Stato è necessaria, ma solo nel breve termine, mentre nel lungo periodo la guerra alla criminalità si vince solo se si riesce a instaurare una cultura della legalità, come evidenziato da una ricerca condotta da P. Buonanno dell’Università di Bergamo e P. Vanin dell’Università di Padova i cui dati sono di prossima pubblicazione sul Journal of Law and Economics, la più prestigiosa rivista internazionale in materia di diritto ed economia, i quali concludono dicendo che il senso civico e la presenza di una densa rete associativa sul territorio riducono i crimini in modo significativo.
Tutte le indagini ci suggeriscono, se ancora ce ne fosse bisogno, che l’incapacitazione dell’individuo sposta semplicemente avanti nel tempo la sua azione deviante o criminale, pertanto le misure emergenziali, se non accompagnate da serie azioni di rieducazione e di risocializzazione non sono in grado di ridurre la criminalità nel lungo periodo. Se si continua a percorrere la strada della carcerazione di massa a scapito del welfare state, come avviene in America, si finisce di dire addio alle conquiste civili affermatesi nel secondo dopoguerra. Occorre investire non solo su una riforma del sistema penale ma anche sulle misure alternative perché abbattono la recidiva a circa il 20%; soltanto un potenziamento delle politiche sociali può garantire anche una sicurezza urbana, altrimenti la dignità della persona non sarà più il fondamento di uno Stato. Investire in politiche sociali vuol dire anche destinare più risorse umane ed economiche al terzo settore della nostra società che, attraverso la formazione professionale (in carcere e fuori) e progetti di inserimento socio-lavorativo da attuare nei confronti di detenuti in misure alternative ed ex-detenuti, contribuisce in modo determinante alla riduzione della recidiva.
Il carcere non è la soluzione alla criminalità "perché chi entra in un carcere è un emarginato, ma chi ne esce, in assenza di una politica di inclusione e reinserimento sociale, è emarginato due volte" (R. Loddo, Ass. 5 novembre).
Sta prendendo piede, e non solo in Italia, un pensiero intollerante, emergenzialista e giustizialista che attraverso strategie di esclusione aumenta i disagi sociali e produce un tipo di devianza da scaricare e nascondere poi in carcere. La tolleranza zero ha fallito e ce lo dicono i numeri: negli Stati Uniti dove è nata la politica di zero tollerance la popolazione carceraria è superiore a quella di qualsiasi altro Paese al mondo: 2 milioni e 300 mila persone private della libertà, 1000 detenuti su 100 mila abitanti, mentre in Europa il tasso medio è di 125 su 100 mila abitanti. Eppure stiamo seguendo quella strada.
Usare il carcere come il contenitore nel quale collocare tipologie di persone con bisogni e domande diverse (tossicodipendenti, extracomunitari, ammalati di Aids o affetti da Hiv; persone con patologie psichiatriche, etc.) significa creare i presupposti per la deriva della giustizia.
Da alcuni anni si continua a ridurre il budget per il funzionamento della giustizia con l’intento di ridurne le spese: eppure questa tendenza, a conti fatti, non solo non riduce le spese (bisogna affrontare l’emergenza), ma diventano più onerosi i costi sociali e umani conseguenti ai reati commessi.
I mass-media, attenti più alle vendite o all’audience, non ci aiutano a capire il fenomeno, anzi, in maniera incompetente, aumentano l’insicurezza e la paura tra i cittadini. L’articolo apparso il 23 aprile su www.ristretti.it riassume il sentimento di coloro, noi compresi, che combattono la cultura dell’intolleranza propagandata colpevolmente dai mezzi di comunicazione di massa.
"Con spregiudicatezza irresponsabile si fa a gara per mettere al centro dell’informazione episodi di cronaca nera raccontando fatti, mettendo insieme frasi raccolte, assemblando immagini il cui effetto è di incutere nei telespettatori, soprattutto nelle fasce di popolazione più fragili per età e per cultura, un senso di terrore incombente alimentato dalla presenza degli stranieri. A volte, meno importanti e più normali, invece, appaiono paradossalmente i delitti di sangue più efferati commessi dai mostri nostrani e spesso rappresentati con i plastici in miniatura nella trasmissione "Porta a porta". Con tali modalità di comunicazione mediatica, probabilmente finalizzata ad orientare l’opinione pubblica per la scadenza elettorale, si sta perpetrando a spese della comunità un danno di proporzioni incommensurabili.
La ferita al corpo sociale, inferta da un’informazione siffatta, è priva, a mio avviso, dei principi basilari dell’etica giornalistica e indica indirettamente strade selvagge di "coprifuoco" permanente, di chiusura e aggressività verso chiunque abbia tratti somatici o linguistici o nomi diversi dai nostri.
Si tratta di un’opera sistematica scellerata di distruzione progressiva del sistema naturale delle relazioni umane. Si tratta di una lucida folle filosofia che si inietta pericolosamente nell’opinione pubblica per far credere che l’unica soluzione per la sicurezza sia la costruzione di infinite carceri e manicomi dove dividere i "cattivi" dai "buoni".
È un’incultura delle barricate che suggerisce allo spettatore acritico il rifugio principe dove sentirsi più sicuri al tramonto: in casa, davanti agli accattivanti intrattenimenti e format televisivi, dove l’unico innocuo gioco interattivo è il televoto a pagamento. Uno schermo intercetta e si sostituisce al nostro bisogno di relazioni sociali e affettive e le fa entrare virtualmente dentro ogni salotto e camera da letto attraverso il reality show, dove non esistono fastidiose o "minacciose" presenze di rom, immigrati ed extracomunitari". (Domenico Ciardulli, in www.ristretti.it)
Mentre l’informazione mediatica persevera a costruire una pseudo realtà, decidendo arbitrariamente quali notizie sono meritevoli di conoscenza da parte del pubblico, la situazione è tornata a quella pre-indulto, grazie alle attuali leggi sulle droghe (legge Fini-Giovanardi), sull’immigrazione (legge Bossi-Fini) e sulla recidiva (legge ex Cirielli), che hanno continuato a far aumentare gli ingressi in carcere, con un incremento di circa un migliaio di persone al mese.